Follia omicida a Capodanno: ecco la pistola che uccise Giuseppe nel 2007

Follia omicida a Capodanno: ecco la pistola che uccise Giuseppe nel 2007
di L'inviata Rosa Palomba
Martedì 27 Marzo 2018, 23:05
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Torre Annunziata. «L’alfabeto comincia con la A e finisce con la Zeta. Ancora non siamo nel mezzo; arriveremo alla fine». Carmela Sermino da ieri è un po’ più contenta. Un poco rincuorata. Suo marito Giuseppe Veropalumbo fu ucciso da un proiettile esploso da un’arma rapinata, e il colpo partì dal rione della camorra. La battaglia della donna sembrava persa, adesso continua con un più forza. Sembra infatti più probabile che l’uomo della sua vita, il padre della sua bambina, possa essere riconosciuto vittima innocente della camorra. La svolta, è segnata dalle indagini chiuse e poi riaperte da Alessandro Pennasilico, capo della procura di Torre Annunziata, e da Vincenzo Gioia, capo del commissariato. La sterzata, dopo che alcuni mesi fa la Scientifica napoletana è stata dotata di una «lavatrice» capace di comparare proiettili e armi, anche nel caso siano rimaste a lungo in acqua. Anzi, in mare. 
Proprio come la pistola ritrovata dai sub della polizia fra gli scogli del porto circa dieci giorni dopo l’omicidio, repertata e custodita in attesa appunto, di strumentazioni più all’avanguardia che potessero eliminare le incrostazioni senza compromettere l’esito delle indagini, e svelare la storia di quell’arma. Il resto, lo hanno fatto i droni che il vicequestore Gioia ha utilizzato per trovare bossoli sulla parete esterna del palazzo della tragedia, al nono piano del centro storico. 
Era la sera di Capodanno del 2007. Alle 23 Giuseppe Veropalumbo era seduto al tavolo della cucina di casa sua. Sulle sue gambe, la figlia Ludovica di appena 14 mesi di età. Allo stesso tavolo, i cognati e il suocero. Ai fornelli, la moglie Carmela Sermino e sua sorella. La cena di San Silvestro è quasi finita; spumante e bicchieri sono pronti per il brindisi di mezzanotte. Alle 23 però, un proiettile infrange il vetro della finestra e colpisce Giuseppe alla nuca. Mezz’ora dopo, i medici dell’ospedale di Boscotrecase firmano il certificato di morte dell’uomo poco più che trentenne, che lavorava nella carrozzeria di suo padre. 
Una vita spezzata; una famiglia distrutta e una giovane vedova che comincia una instancabile, durissima, faticosa battaglia. Vuole la verità. E all’infinito pone due domande: perché il suo sposo è stato ucciso, e da chi? 
Ieri, nella sede dell’associazione intitolata a suo marito nella casa confiscata ad Aldo Agretti, figlio di Carmela Gionta, sorella del boss Valentino, Carmela cerca di sorridere anche se questi dieci anni di sofferenza e rabbia continuano a riempirle gli occhi di dolore. «Ripenso a me stessa nei mesi successivi alla tragedia. Vestita di nero, passavo disperata dalla procura al commissariato in cerca di verità. All’inizio, la gente e i giornali dissero di tutto e anche di più ma come risultò dalle indagini, mio marito non aveva avuto mai neanche una multa - racconta la donna - Lui era una persona perbene e allora perché quella morte assurda? Rimasi senza lavoro, senza casa, senza marito e con una bambina che benché all’epoca dei fatti avesse soltanto quattordici mesi, per anni ha mostrato i segni di quel trauma, di quella paura che quella notte entrò nelle nostre vite». 
Oggi Carmela Sermino è presidente dell’associazione Veropalumbo a Torre Annunziata, componente di Libera e assessore alla terza municipalità del comune di Napoli. Tra le altre, a lei è stata affidata anche la delega alla Giustizia Sociale. Mostra una libreria: «Questi volumi ci vengono regalati - dice - mi piacerebbe tanto fare di questa casa una sorta di libreria comunale, aperta ai ragazzi». E la sua battaglia? «Per anni lo Stato ha rigettato l’istanza in cui chiedevo lo status di “vittima innocente della camorra”. Adesso che le indagini stanno prendendo la direzione giusta, continuerò su quello stesso percorso. Non desisto, per mio marito che era un bravo ragazzo, e per mia figlia a cui ho sempre detto tutta la verità circa la morte di suo padre, e che ha diritto a un futuro dignitoso in tutti i sensi. Non voglio più vedere ombre negli occhi della mia bambina». Carmela cerca nuovi «mattoni», tutti i pezzi di una storia che vuole vedere finalmente chiusa, definita: «È l’unico modo per cercare di ritrovare un po’ di pace». 
La polizia intanto, potrebbe chiudere un cerchio lungo quasi undici anni. Trovata l’arma, gli uomini diretti da Vincenzo Gioia, e coordinati dal procuratore Alessandro Pennasilico e dai magistrati Pierpaolo Filippelli e Silvio Pavia, sono ora al lavoro per restringere la traiettoria e definire il punto esatto da cui è partito il colpo. La direzione, potrebbe essere proprio il Quadrilatero delle Carceri, quartiere dello storico e potente clan Gionta. Non necessariamente il noto palazzo Fienga però, abitazione del capoclan Pasquale Gionta. 
I riscontri sull’arma sono invece già risolti: un anno e mezzo prima dell’omicidio Veropalumbo, quella pistola per uso sportivo, cromata, calibro 9x21, fu rapinata a Marcianise a un signore di Acerra. Gli accertamenti confermarono che era tutto in regola: matricola, detenzione, permessi. Il proprietario denunciò subito di essere stato vittima di un colpo. Come sia possibile che circa 18 mesi dopo l’arma si trovasse a Torre Annunziata, apre almeno due ipotesi: traffico d’armi rubate; oppure, il rapinatore stava trascorrendo la sera di Capodanno proprio in una delle case del bunker della cosca. 
«La pistola fu ritrovata non per caso - chiarisce la polizia - nei primi anni dalla vicenda le verifiche furono serrate». Tanto, che nell’ambito delle indagini fu dragato perfino il porto di Torre Annunziata, «senza l’aiuto di pentiti». Poi, il caso fu archiviato per mancanza di prove. Ma appena la Questura di Napoli è stata dotata di strumentazioni più sofisticate, Vincenzo Gioia, alla guida del commissariato di Torre Annunziata da poco più di due anni, nel 2016 chiese e ottenne la riapertura del caso. «È un tipo di pistola più grosso delle norma - dice Gioia - difficile da nascondere. Improbabile per esempio, che possa essere stata detenuta e utilizzata da un ragazzino. Mi meraviglierei molto se undici anni fa fosse stata utilizzata da un sedicenne». 
«Solitamente, queste inchieste restano sempre aperte», aggiunge il procuratore Pennasilico. Che alla prima occasione, ha firmato il riavvio dell’inchiesta. Il fascicolo per omicidio preterintenzionale è stato infatti riaperto a gennaio di quest’anno, anche se ancora contro ignoti. Ma l’impressione è che una nuova svolta possa arrivare presto. La più importante novità investigativa di ieri è la certezza matematica della traiettoria compiuta dal proiettile fatale. E se il punto di arrivo fu subito tristemente chiaro, quello di partenza era stato soltanto vagamente ipotizzato. Adesso, nel fascicolo degli investigatori c’è scritto che Veropalumbo fu ucciso da un colpo partito da un edificio distante poche decine di metri dalla sua abitazione e non da circa 150 come inizialmente annunciato. Fu esploso dall’alto, nel cuore del Quadrilatero delle Carceri. 
«La tragedia piombata quella sera in casa mia, ha distrutto la vita di mio marito, la mia e dei nostri familiari: qualcuno dei miei parenti più stretti si trasferì al Nord perché non riusciva più a stare qua. Qualcun altro è andato in depressione e mia figlia tremava se qualcuno parlava con un tono di voce un po’ più alto - aggiunge Carmela - Tutti mi dicevano di smetterla, di rassegnarmi alla cultura di queste zone: a Capodanno in tanti sparano anche con le pistole vere». 
Poche ore dopo quella tragica notte, le forze dell’ordine recuperarono centinaia di bossoli di armi da guerra e da kalashnikov. Morte vagante per festeggiare un nuovo anno, magari nuovi affari sporchi. Forse perfino omicidi pianificati tra un brindisi e l’altro. 
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