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Il Mattino

Vigili urbani meglio addestrati, l’arma necessaria per la sicurezza

di ​Piero Sorrentino
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 29 Maggio 2023, 00:00 - Ultimo agg. : 06:00
4 Minuti di Lettura

Quel pasticciaccio brutto di via Duomo – l’aggressione del senzatetto all’agente della polizia municipale, i numerosi colpi esplosi, il sangue, la successiva reazione della folla inferocita e fuori controllo – è figlio di molti padri. C’è però un punto, in particolare, sul quale è forse necessario soffermarsi: quello delle poche risorse destinate alle forze dell’ordine, della formazione e dell’assistenza psicologica agli agenti.

Perché se diamo per acquisito che l’uso pubblico della violenza in uno Stato democratico è, e deve essere, appannaggio esclusivo degli operatori di polizia, allora ne consegue che a quegli stessi operatori dobbiamo fornire non solo strumenti e risorse, ma anche competenze affinché di quella violenza autorizzata se ne possa fare un uso lucido, contenuto, essenziale, sostenuto da tecniche, aiutato da una lunga e approfondita preparazione teorica e pratica.

Non è facile essere un agente che lavora in strada. Le situazioni da fronteggiare sono moltissime, spesso inattese o improvvise. E proprio per questo non ci si può improvvisare. Soprattutto in una realtà quotidiana come quella di Napoli dove gli scenari cambiano di continuo e si arricchiscono di mille fattori. Essere un agente di polizia in una placida provincia del centro Italia, insomma, non è come esserlo nella complicatissima metropoli partenopea, e se a ogni contesto è necessario abbinare il proprio contenuto, giocoforza bisogna adattare alla realtà di questa città i suoi operatori. Che spesso vengono buttati in strada più o meno dalla sera alla mattina, pochi e male equipaggiati, con poche o nulle nozioni di difesa personale, tecniche di mediazione, pratiche di negoziazione in scenari conflittuali. 

Una formazione che sia anche una messa in discussione di certi automatismi che in particolari situazioni di stress, volenti o nolenti, si innescano, fino a portare a volte a scenari catastrofici. Un operatore aggredito, sanguinante, isolato, confuso, magari accerchiato o con le spalle al muro finirà quasi sicuramente col tirare fuori l’arma di ordinanza e sparare, col rischio di ferire o ammazzare, e se questo accade in pubblico – in una situazione di particolare passaggio o affollamento come una mattina di primavera sul sagrato di una delle chiese più frequentate della città – chi garantisce la tutela di passanti inermi, famiglie, bambini? “L’unica pistola sicura è quella che non spara” insegnano ai corsi per le forze dell’ordine. Cioè: gli agenti che intervengono devono farlo nel migliore dei modi possibili, valutando attentamente lo scenario nel quale si trovano a operare, studiando le distanze, gli angoli morti, impostando un approccio d’intervento basato sull’attenzione e sulla prudenza, sul considerare i soggetti dei loro interventi come individui da aiutare – spesso si tratta di persone con gravi sofferenze psichiche, tossicodipendenti, ubriachi – e non come nemici a tutti i costi da neutralizzare.

Se insomma si dà mandato a un agente – non è chiaro di quanti operatori fosse composta la pattuglia che era stata inviata a sgomberare i bivacchi sotto i portici del Duomo – a calarsi in un contesto complesso, e quest’ultimo si vede poi aggredire con una sbarra di ferro ed essere pesantemente ferito fino a trovarsi con ossa rotte e sangue che gli cola negli occhi dalla testa, non è difficile immaginare quale sarà poi l’esito di questa sequenza di fatti: un agente è comunque un essere umano con le sue ansie, le sue paure e il suo istinto di conservazione che necessita di strumenti frutto di un addestramento: come si tiene a terra una persona senza farle del male? Come si agisce di fronte alla resistenza passiva per portare a termine l’incarico con il minimo danno e disagio possibile per tutti?

La carta decisiva in ognuno di questi scenari è la capacità di gestione dello stress, quello che viene chiamato “stress da evento critico”: un problema improvviso che necessita sicuramente di una reazione, però ponderata e ragionata. Dai taser ai manganelli, dalle leve articolari ai modi per rendere inoffensivi eventuali aggressori: nessuna di queste cose è un gioco, con nessuna di queste cose si scherza, ognuno di questi elementi richiede addestramento, formazione, insegnamento, corsi di perfezionamento continui. Fare poche ore di lezione davanti a uno schermo – quando va bene e quando accade – non serve assolutamente a nulla. 

È necessario quindi che il Comune di Napoli consideri quanto accaduto l’altro giorno come una specie di test. Basterà chiedere agli stessi agenti per verificare quanto essi stessi siano i primi a chiedere più formazione, consapevoli delle loro lacune. C’è un sacco di lavoro da fare, e molti Comuni italiani si stanno attivando. Se l’attuale mandato politico ha delegato alla polizia locale una serie di interventi che prima erano di competenza di altri operatori delle forze dell’ordine – polizia e carabinieri – allora è necessario che questo allargamento del raggio d’azione – ordine pubblico, intervento attivi negli sfratti, sgomberi ecc. – sia preparato per tempo. Su questo è necessaria una riflessione più profonda al livello della politica: quali sono i compiti della polizia locale e quali quelli di altri settori della pubblica amministrazione, a partire dai servizi sociali? Troppe stanno diventando le responsabilità assegnate all’intervento della forza pubblica. Pochissime quelle che si son tenute per sé l’amministrazione, la politica e la classe dirigente della città. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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