«De Luca juventino», il bar sport diventa set da tribuna politica

«De Luca juventino», il bar sport diventa set da tribuna politica
di Antonio Menna
Sabato 20 Giugno 2020, 23:00 - Ultimo agg. 21 Giugno, 13:45
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Potevano contestargli inefficienze sanitarie e inciampi operativi. Potevano anche ironizzare sul lanciafiamme che si è fatto fiammifero. Ma la replica del centrodestra alla diretta del venerdì – la prima dopo gli assembramenti per la Coppa Italia - del presidente De Luca è stata questa: parla proprio lui che è juventino. Ma come? La politica che va oltre il discorso da bar ed entra direttamente allo stadio. Il primo a dirlo è stato Stefano Caldoro, da mesi candidato a essere candidato alla presidenza della Regione, pronto a sfidare per la terza volta proprio De Luca. Il governatore finisce di parlare alle 15 e 40 e Caldoro pubblica un video alle 16 e 42. «Vincenzo De Luca (noto tifoso della Juve) – scrive velenoso Caldoro sulla sua pagina Facebook - se proprio non riesce a parlare di programmi e cose serie, chieda scusa. Forza Napoli!». Poche ore e si accodano molti esponenti del centrodestra. Gran parte delle profonde osservazioni si muovono intorno al concetto: «De Luca juventino». E, in qualche caso, De Luca che da salernitano, insulta i napoletani. Le grandi categorie della politica. 

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Del resto lo stesso governatore aveva dedicato oltre quindici dei quaranta minuti del suo video alla “gioia incontenibile dei tifosi del Napoli”, accarezzandoli bonario, come il papà burbero che perdona la marachella, per poi esaltare per oltre cinque minuti la “bellezza del catenaccio” di Gattuso: «mettere in difesa non undici, venti uomini, pure i raccattapalle. Novanta minuti di barricate, e poi al novantunesimo una pappina nella porta avversaria», ha detto De Luca, svelando così in realtà che non vede una partita di calcio dal 1970. Il governatore poi non manca di mandare un «in bocca al lupo al Benevento, alla Salernitana, alla Juve Stabia (non ha dimenticato nessuno?): che possano darci pure loro grandi soddisfazioni com’è capitato in queste giornate di tormento e di gioia». Ma che ci azzecca tutto questo con la politica, con il governo regionale, con l’emergenza sanitaria e sociale? Niente ma fa brodo. Anche il calcio è campagna elettorale. Parallelamente all’indebolimento dell’emergenza sanitaria – ottimo impasto di populismo e paura - arriva un nuovo terreno fertile: Napoli contro Juventus, che riedita il copione Sud contro Nord, poveri contro ricchi, uomini tosti contro pappamolle. La grande furbizia di entrare in un circuito popolare: se il popolo non va alla politica, la politica va al popolo. 
 


Del resto, proprio a Napoli, qualcosa di simile lo avevamo già intravisto. Anche il sindaco si riscoprì tifoso del Napoli dimenticando la sua mai smentita fede interista, ed esaltandosi invece per le gesta degli azzurri (quando si lottava ai vertici, in verità, perché la politica è così: ama il calcio quando vince). La trasformazione della battaglia politica in scontro tra curve è una grande questione nazionale da oltre 20 anni. «Lasciate lavorare il centravanti», disse Berlusconi nel 1994, quando il suo governo cominciò ad avere i primi problemi. Proprio lui, il Cavaliere, presidente del Consiglio e proprietario di una squadra di calcio, ha mescolato politica e pallone meglio di tutti. «Scendere in campo» fu la prima metafora usata da Berlusconi, che aveva già letto l’Italia nuova, quella dove chi guida in realtà è guidato (dai sondaggi). Arriva ben tardi Salvini quando, qualche anno dopo, inaugura la stagione delle felpe. Si presenta a un comizio a Giulianova con la maglia della squadra locale di calcio. Lui, ultrà milanista (celebri i cori contro i tifosi napoletani “che puzzano come i cani”), che come Zelig diventa tifoso di ogni team della città che visita. E ovviamente la politica che diventa calcio interiorizza linguaggio e violenza verbale. La contrapposizione tra tifoserie, gli insulti, gli sfottò, il tono triviale, le allusioni sessuali, l’invidia per i successi (gufi e rosiconi, tuonò Renzi, gran tifoso della Viola). Al posto della Tribuna politica, tutto diventa talk calcistico da tv privata: la rissa, non mi interrompa, mi faccia parlare. E si palleggiano gli argomenti: quando si perde, si evocano i “poteri occulti”; quando si resiste si parla di catenaccio; c’è il cambio di casacca, c’è il totoministri, la rimonta, il pareggio, c’è il big match. Non è più la politica che entra nelle curve (c’è sempre stata un’assonanza tra le organizzazioni di estrema destra e di estrema sinistra con le tifoserie organizzate) ma la curva che detta l’agenda: muta il linguaggio, lo stile, le priorità, la qualità dello scontro. La politica finisce nel pallone, un po’ come l’allenatore Oronzo Canà di Lino Banfi, che inventò il modulo 5-5-5 e la bizona: quelli davanti tutti dietro e quelli dietro tutti davanti.
Così nella confusione generale magari vinciamo. Sembra la campagna elettorale in Campania.

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