Violenza sulle donne, terza legge: speriamo basti

di Titti Marrone
Venerdì 3 Dicembre 2021, 23:30 - Ultimo agg. 4 Dicembre, 08:00
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È bello vedere ministre di aree politiche e appartenenze diverse – Bonetti, Cartabia, Gelmini e Lamorgese - muoversi all’unisono su un progetto.

Unite per promuovere il pacchetto di norme contro la violenza di genere ieri approdata alla Camera. La prima volta, una simile compattezza si vide nel febbraio 1999: fu dopo che un gruppo di parlamentari si presentò in jeans nell’aula di Montecitorio per protestare contro la sentenza della Cassazione a proposito del cosiddetto “stupro consenziente”, che considerava l’atto di indossare quel capo un ammiccamento compiacente da parte della vittima e un’attenuante per la violenza esercitata da un barista. Per la verità, a protestare furono per prime le deputate dell’allora Polo delle Libertà, strigliando le colleghe di centrosinistra che presto si unirono al cosiddetto “sciopero della gonna” assai fotografato e mediaticamente diffuso. E si arrivò così a un inedito, lodevole fronte unico, oggi replicato in nome della lotta contro la violenza di genere.

A guardare la foto di allora, sembra che sia stata fatta non poca strada. E le misure proposte oggi vorrebbero in modo drastico inasprire le pene ai violenti senza limitare la libertà delle donne, e soprattutto rendere efficaci le norme preventive. Però, un attimo dopo l’apprezzamento positivo, è obbligatorio farsi un po’ di domande, se davvero si vuole che i provvedimenti risultino efficaci. La prima: come mai l’approvazione della legge sul femminicidio dell’ottobre 2013 e poi del Codice Rosso del 2019 non ha portato ai risultati sperati? Come leggere il dato degli 89 reati di genere ogni giorno in Italia, dei 109 femminicidi del 2021, dell’aumento dell’8% nell’ultimo anno di violenze contro donne per mano maschile? La sensazione rinviata dalle decine e decine di storie riportate dalla cronaca è che nulla, nessuna legge, sia mai abbastanza. E la frustrazione, che dev’essere anche di chi legifera, delle donne in quanto tali, in quelle impegnate in lotte politiche e di genere, è sempre più forte. 

Altra domanda: come governare un sistema di controlli veramente efficace in grado di prevenire le violenze? Prendiamo il caso del braccialetto elettronico, o della cavigliera, da imporre all’uomo accusato di reati dal codice rosso, però rimasto in libertà. La nuova norma prevede che l’uomo, se colpevole di stalking o di comportamento violento, sia obbligato ad indossarlo - pena misure limitative dei suoi movimenti - mentre prima doveva essere lui ad acconsentire a portarlo.

Ma come si fa a vigilare veramente, e a fondo, sui movimenti di qualcuno, monitorandone spostamenti non più segnalati nei luoghi dove il divieto di avvicinarsi alla donna non c’è, vale a dire quelli che lei abitualmente non frequenta? E quale imponente sistema di forze dell’ordine, quali complessi apparati di controllo a distanza potranno padroneggiare tutto questo?

Altra domanda ancora: al netto dei tempi parlamentari per la discussione di queste nuove norme, di solito sempre lunghissimi in casi di diritti delle donne e diritti civili in genere, come evitare i rallentamenti imposti in aula dalle solite polemiche sui costi esorbitanti dei provvedimenti, sulle “vere priorità”, sulle limitazioni di libertà? Già ci sembra di sentire i cori di protesta delle forze politiche aduse a sproloquiare di diritti di libertà violati (già allenatissime dalle polemiche Non vax) riguardanti i destinatari del braccialetto elettronico. Per non parlare della prevedibile opposizione che incontrerà la misura sul cosiddetto “reddito di libertà” che il pacchetto delle ministre ipotizza per le donne economicamente non indipendenti.

E allora: ben vengano le nuove norme, ma purché si sia consapevoli che da sole non basteranno, come non sono bastate fin qui la legge del 2013 e quella del 2019. Che per battere la violenza sulle donne non basta fare ricorso a nuove sofisticate tecnologie. Che per tutte le domande qui formulate, e per molte altre ancora, la risposta è una sola. Serve un radicale cambio di passo. La più importante delle tecnologie da mettere in campo è un processo di riorientamento culturale complessivo. È un percorso lungo e difficile da compiere agendo sulla “sovrastruttura” più difficile da scalfire e più importante, quella delle mentalità, negli uomini e anche nelle donne. Perché quella da rimuovere è la mentalità patriarcale che negli uomini produce maschilismo aggressivo, senso di possesso totale ed accecante, e nelle donne svalutazione di sé, mancanza di autostima, subalternità, rassegnazione. E qui per uscirne – altro che leggi – ci vorrà una vera rivoluzione.

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