Troppi errori su Whirlpool, lo Stato ora rimedi

di Sergio Sciarelli
Mercoledì 20 Ottobre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:16
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Ormai il disastro Whirlpool è quasi compiuto. Time is over: sono passati tre anni e oggi, dopo un ulteriore rinvio del tavolo ministeriale al 25 ottobre, si discute in termini di proroghe settimanali per i licenziamenti che purtroppo si abbatteranno su oltre 300 lavoratori.

Come già ho scritto su queste stesse colonne, la gestione di questa crisi rappresenta un drammatico esempio di errori addebitabili a tutti i protagonisti. Per me nessuno escluso: azienda, governo, sindacati e, dispiace constatarlo, anche gli stessi lavoratori. Nonostante, infatti, una forte pressione esercitata mediante eclatanti azioni di blocco di autostrade, stazioni ferroviarie, porti, missioni romane non c’è stato nessun superamento di iniziali contrapposizioni e pregiudizi, che rendono e hanno reso di fatto irrisolvibile qualsiasi caso di crisi aziendale. Ma il fatto veramente singolare è che, per quanto mi risulta, non sia mai stato chiesto alla multinazionale americana, e conseguentemente reso pubblico, un chiarimento preciso e convincente sui motivi dell’abbandono di un opificio nel quale comunque (e con molte risorse anche pubbliche) erano stati fatti investimenti sulla base di programmi pluriennali concordati con il Governo italiano addirittura tre anni fa. È perciò intuibile che la mancanza di una spiegazione per un comportamento altrimenti poco comprensibile abbia prodotto tensioni e provocato conflitti che si protraggono ormai da troppo tempo.

In proposito c’è inoltre da sottolineare che anche per la crisi Whirlpool si è verificato l’errore ricorrente nel nostro Paese di puntare alla continuità di aziende o siti produttivi ritenuti non più gestibili dall’imprenditore per consentire il salvataggio di tutti i posti di lavoro. La storia insegna invece che, probabilmente, con un’operazione di downsizing (riduzione parziale dell’organico) e con l’immissione di nuovi capitali si possono contenere gli effetti di crisi, da scongiurare soprattutto in contesti economicamente deboli come il nostro.

Opposizione ad oltranza a eventuali tentativi di riconversione, illusione da parte sindacale di potere ottenere un risultato ottimale (prosecuzione dell’attività nello stesso luogo e con lo stesso organico lavorativo), atteggiamento ondivago e inefficiente di più governi succedutisi nel tempo, nessuna concessione da parte dell’azienda, hanno caratterizzato l’acuirsi di una situazione di crisi.

Cosa fare, ora, giunti ad un punto che sembra di non ritorno? Chi deve progettare e pilotare in tempi brucianti qualche possibile tentativo di soluzione? Chi deve poi assumersi la responsabilità della sua realizzazione?

Confidando su atteggiamenti più costruttivi di tutti i protagonisti, l’unica risposta, anche se minimale e di valore specie morale, potrebbe essere la disponibilità a sottoscrivere per il momento, senza ormai ulteriori rinvii, un “protocollo d’intesa” chiaro e, soprattutto, realistico, garantito dallo Stato con la partecipazione di Invitalia e delle aziende dichiaratesi disponibili (di cui almeno si sono già fatti alcuni nomi), con l’obiettivo, condiviso, entro la fine dell’anno e con la formula consortile un serio progetto di riconversione industriale del sito produttivo napoletano. Questo, ovviamente, non starebbe a creare certezze circa la soluzione del problema, ma rappresenterebbe comunque un passo avanti necessario per delineare, con maggiore chiarezza e tempificazione, un cammino da compiere responsabilmente con il contributo di tutte le parti in causa.

Decisivo tuttavia, a tale fine, non può che essere il ruolo dello Stato sia per la finalizzazione del progetto sia per l’impegno consistente nel destinare da subito risorse finanziarie sufficienti per meccanismi di aiuto economico e per la formazione professionale del personale non immediatamente impiegabile nell’auspicabile ristrutturazione industriale.
 

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