Whirlpool, ovvero come non gestire una vertenza

di Sergio Sciarelli
Giovedì 29 Ottobre 2020, 23:55
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Il caso Whirlpool costituisce un esempio emblematico di come non si affrontano situazioni di crisi, tenendo peraltro presente che nel caso specifico non ci si trova di fronte ad una crisi d’impresa, ma ad una decisione di dismissione di un sito produttivo ad opera di un’azienda in salute. Si tratta ovviamente di una distinzione fondamentale perché nella prima ipotesi occorre tentare un salvataggio aziendale mentre nella seconda si tratta di individuare percorsi di riconversione di un impianto produttivo non rientrante più nella strategia di sviluppo imprenditoriale. In questo secondo caso non si possono trascurare due elementi: qual è la ragione di una decisione sicuramente pesante in termini occupazionali che comporta comunque conseguenze penalizzanti sotto il profilo economico per l’impresa che intende adottarla e, ancora, in qual modo appare lecito e ragionevole adoperarsi per impedirla o comunque rinviarla “sine die”?


Ritorniamo sul primo interrogativo: perché una multinazionale, che non può non essere attenta all’immagine, perviene ad una decisione così grave per il contesto socio-economico di riferimento, dopo avere peraltro stipulato un accordo ed avere ricevuto finanziamenti dallo Stato italiano? Lasciare inattivo uno stabilimento significa peraltro affrettarne il degrado e, quindi, pregiudicare le ipotesi di disinvestimento e, di conseguenza, decidere di sopportare una perdita nel proprio bilancio.


Al riguardo, non si è capito (o comunque non sono state ben chiarite) le vere ragioni alla base di tale comportamento (i prodotti fuori mercato? i costi di produzione non competitivi? un impianto vetusto? un eccesso di personale all’origine di una bassa produttività?). E’ evidente, difatti, che a seconda delle cause richiamate, la soluzione da ricercare può individuarsi in termini di riconversione produttiva oppure di ristrutturazione organizzativa. L’azienda ha dunque sbagliato a non comunicare chiaramente le ragioni di una scelta impopolare e certamente antieconomica, ad assumere una posizione di intransigenza e a sottovalutare l’onere morale relativo a patti stipulati e finanziamenti pubblici ricevuti. Nonostante il peso di queste considerazioni, in un’economia di mercato non si può tuttavia immaginare di contrastare e impedire una scelta imprenditoriale.


Ma altrettanto sbagliato è stato il comportamento del Governo che, invece di percorrere la via del pragmatismo (ricerca della soluzione possibile e non di quella teoricamente ottimale di salvare tutti i posti di lavoro), a parole ha dimostrato solidarietà con i lavoratori, ma in realtà si è rifugiato nella tecnica del rinvio fino a far giungere alla scadenza definita dalla proprietà improrogabile (domani) per la dismissione dello storico impianto di via Argine. 
Si sono così a lungo fronteggiate due posizioni di intransigenza (l’azienda che dal primo momento ha dichiarato l’irrevocabilità della sua scelta) e i rappresentanti dei lavoratori contrari a qualsiasi ipotesi di ristrutturazione organizzativa.

A nostro avviso, il sindacato poteva e doveva svolgere concretamente e più incisivamente un’azione di mediazione in una vicenda rilevante per l’intera economia della Campania.


Conclusione sconfortante è che, a distanza di qualche giorno dal preannunciato abbandono del sito napoletano, non s’intravede nessuno spiraglio per un positivo mutamento di condotta dei principali “player” chiamati ad assumere un ruolo di protagonisti in una questione così vitale. Lo Stato continua a latitare (fra l’altro non doveva coinvolgere Invitalia?) e avanza di recente all’azienda solo la proposta di un ulteriore e sostanzioso contributo finanziario pubblico (cento milioni di euro), destinato a fare la fine di tanti altri sussidi statali sprecati in circostanze analoghe, la multinazionale appare irremovibile nella sua decisione e i sindacati ,infine, non sono riusciti a stimolare atteggiamenti collaborativi per giungere ad una soluzione praticabile in grado di salvare almeno il maggiore numero di posti di lavoro.
In pratica, dunque, una decisione fortemente penalizzante per tutti, che s’inserisce per di più in un clima sociale già così depresso, dipende in buona sostanza dal mancato rispetto da parte dei protagonisti delle tre condizioni essenziali per risolvere situazioni di crisi: pragmatismo, flessibilità e tempestività. Auguriamoci, nell’interesse dei lavoratori, di potere essere smentiti dall’avvenuto raggiungimento in “extremis” di un’intesa che porti alla migliore soluzione possibile per un problema lasciato irresponsabilmente insoluto nel corso di anni.

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