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Zelensky a Sanremo e la forza dei valori

di ​Alessandro Campi
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 29 Gennaio 2023, 23:45 - Ultimo agg. : 30 Gennaio, 06:00
6 Minuti di Lettura

Le voci contrarie alla presenza di Zelensky a Sanremo non accennano a spegnersi. Perché dare ospitalità, all’interno della più importante rassegna canora italiana, al capo politico di un paese in guerra, anche se nostro alleato? Va bene trattare al festival, come in passato, questioni sociali o relative ai diritti, trasmettere messaggi contro il razzismo o l’intolleranza, ma qui parliamo di eserciti che combattono, di forniture d’armi, di violenza bruta, di persone (civili o soldati) che vengono uccise. 

Dove sta l’aspetto edificante o pedagogico di un discorso dal fronte indirizzato ad una platea televisiva che vorrebbe soprattutto divertirsi e disposta, al massimo, a sorbirsi qualche pistolotto moralistico dall’influencer di turno? 

Il rischio, si dice, è di scivolare nella propaganda di guerra, in sé pericolosa e deprimente. Meglio evitare viste le tante paure e ansie che da tempo ci affliggono. All’Ucraina stiamo dando ogni possibile supporto: finanziario, logistico, militare. C’è davvero bisogno di stare a sentire, proprio nella serata finale del festival, un signore che compare sempre in abiti militari e non fa altro che chiedere armi e munizioni? Se è per ringraziare l’Italia e gli italiani per il loro sostegno, Zelensky lo ha già fatto in occasioni più consone.

Gli argomenti utilizzati da coloro che criticano la scelta della Rai sono diversi tra loro. Per i filo-russi in servizio permanente effettivo, che però non osano presentarsi come tali, è una questione di inopportunità. Canzoni e politica dovrebbero restare separate. Ma è una tesi al tempo stesso strumentale e peregrina. La musica non è mai stata svago fine a sé stesso. Come non lo è il cinema. E infatti Zelensky, per sostenere le ragioni dell’Ucraina dinnanzi al mondo, è già stato ospite di eventi quali il Festival di Cannes o i Golden Globe, certamente più importanti di quello sanremese. 

Ma ci sono anche le perplessità in buona fede, che ne fanno invece una questione di convenienza. Se è il contesto che condiziona il messaggio non si rischia di banalizzare la tragedia di un popolo aggredito parlandone all’interno di uno spettacolo televisivo, tra una canzone e uno sketch comico? Le parole di Zelensky a Sanremo potrebbero persino avere un effetto controproducente rispetto alla nobile causa che intende difendere. Così come potrebbe essere considerato fastidioso il fatto che il presidente ucraino compaia ormai ovunque, col rischio di creare una involontaria crisi di rigetto anche tra i suoi sostenitori.

Come tutte le polemiche, per quanto pretestuose o montate ad arte, anche questa va presa sul serio. Non per il suo contenuto esplicito, ma per ciò che sottintende. In questo caso una sorta di strisciante fastidio, che sembra cresciuto col passare del tempo, per l’impegno dell’Italia al fianco degli ucraini e, ancora di più, per le motivazioni profonde che sembrano animare questi ultimi.

Dall’inizio del confitto russo-ucraino il nostro governo (prima Draghi, ora Meloni) e i principali partiti non hanno avuto dubbi su quale fosse la parte giusta. Lo Stato italiano, insieme agli alleati europei e internazionali, ha subito scelto la strada delle sanzioni a Mosca e dell’appoggio politico-militare a Kiev.

Ma un pezzo dell’opinione pubblica italiana ha mostrato, sin dal primo momento, un orientamento molto diverso. Parliamo di un fronte composto da almeno cinque segmenti: i simpatizzanti per motivi ideologici dell’autocrazia putinista; gli pseudo-realisti che davano per scontato un rapido tracollo dell’Ucraina; i pacifisti per ragioni etico-religiose; la sinistra sempre schierata su posizioni anti-occidentali e anti-americane; infine quelli che potremmo definire i neutralisti da società del benessere o per quieto vivere (il proprio naturalmente). 

Quest’ultimo è il segmento cresciuto di più nel tempo, avendo nel frattempo trovato chi ne cavalca gli umori sul piano politico-mediatico. Per chi sostiene questa posizione, non esistono motivazioni ideali o valoriali (la difesa della legalità internazionale, il sostegno ad una democrazia minacciata) tali da giustificare il coinvolgimento in un conflitto che più si allunga e si inasprisce più ci penalizza sul piano economico. Perché inimicarsi per sempre la Russia che è un Paese col quale abbiamo sempre fatto lauti affari (in campo energetico e non solo)? Quanto meglio si sarebbero potuti spendere i soldi che da circa un anno destiniamo in armi e spese militari? 

Chi la pensa così, in termini in senso lato utilitaristici, ritiene che ospitare Zelensky a Sanremo significherebbe dare una vastissima tribuna mediatica a posizioni che, diversamente da quel che si sostiene a livello ufficiale, sono contrarie all’interesse reale degli italiani. Altro che combattere sino alla vittoria conto i russi. Serve al più presto una soluzione diplomatica, ci vuole una pace rapida: non perché si abbiano a cuore il diritto e la giustizia nei rapporti tra Stati, ma perché così si pone fine ai sacrifici impostici da una guerra che non abbiamo voluto e che non è la nostra.

Una guerra che, guardando al modo con cui la conducono gli ucraini, fatichiamo a comprendere anche sul piano delle motivazioni. E qui sta la seconda ragione per cui ascoltare gli appelli patriottici alla resistenza di Zelensky rischia di procurarci un malcelato imbarazzo. Per cosa si battono gli ucraini? Per la democrazia e per difendere i valori di libertà tipicamente occidentali, ci siamo spesso ripetuti. In realtà, la causa vera per la quale si sono dichiarati disposti a morire è stata, sin dal primo momento, quella della loro indipendenza e sovranità nazionale. Civili e militari, uomini e donne, giovani e vecchi, lottano per l’integrità territoriale della nazione ucraina, per difenderne la storia, la lingua, la cultura e le tradizioni. 

Ma proprio questo battersi per la loro esistenza come popolo è per noi qualcosa di urticante. E’ un sentimento che abbiamo conosciuto ma che adesso non sentiamo più. Pro patria mori: per noi appartenenti al club delle società entrate, grazie al benessere economico e ai progressi della tecnologia, nella dimensione della post-storia, dove ormai contano solo i desideri e la volontà dei singoli, questa formula sembra un atavismo ideologico. Qualcosa di incompatibile con una scala dei valori nella quale al primo posto abbiamo messo da tempo l’autogratificazione individuale, il tornaconto personale e il riconoscimento sociale delle identità puramente soggettive. 

Non c’è più nessuna causa collettiva che valga il sacrificio di sé. Davvero si è ancora disposti a morire per difendere una cosa chiamata “identità nazionale”, qualcosa che per noi è poco più di una finzione, al massimo una convenzione legale? Se da un lato il coraggio degli ucraini suscita ammirazione, dall’altro ci spaventano le ragioni che lo alimentano. 

Zelensky a Sanremo ci ricorderebbe, con la sua sola presenza, da un lato una realtà politica che molti italiani non vogliono ammettere nascondendosi dietro un pacifismo-neutralismo peloso: cioè che per ragioni ideali e di principio si può anche scegliere di sacrificare il proprio benessere economico e di esporsi ai rischi che ogni conflitto armato comporta. E dall’altro una dimensione dell’esistenza storica nella quale abbiamo smesso di credere: la forza vincolante delle appartenenze collettive, l’esistenza di un Noi prima dell’Io. 
Due buone ragioni per ospitarlo al festival il prossimo 11 febbraio.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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