«Comprò i senatori anti-Prodi» Berlusconi condannato a 3 anni

«Comprò i senatori anti-Prodi» Berlusconi condannato a 3 anni
Giovedì 9 Luglio 2015, 02:51
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Leandro Del Gaudio
Quei soldi erano tangenti, non accordi politici, quel voto era corruzione, non strategia di partito, l'operazione libertà è stata un tentativo di condizionare la vita pubblica non una sacrosanta battaglia parlamentare. Eccola la sentenza sulla compravendita dei senatori, eccolo il senso del provvedimento adottato ieri dal Tribunale di Napoli, al termine di un processo lungo più di due anni.
Sono le otto di sera, dopo sei ore di camera di consiglio escono i giudici della prima sezione penale: condannati Silvio Berlusconi e Valter Lavitola a tre anni di reclusione (oltre a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e al risarcimento del danno verso il Senato). Passa la linea della Procura (che aveva chiesto cinque anni e quattro anni e quattro mesi per i due imputati), il reato di corruzione c'è stato dicono i giudici. Tra il 2007 e il 2008 - a ripercorrere le fasi del Processo - valigette di soldi entravano a Palazzo Madama per convincere l'ex senatore Sergio De Gregorio a lasciare il centrosinistra e sfiduciare il governo Prodi (di per sé traballante). Tre milioni di euro - dicono gli atti - uno in chiaro, due in nero, per convincere l'ex leader di Italiani nel Mondo a tornare «alla casa madre» di Forza Italia.
Soddisfazione da parte della Procura di Giovanni Colangelo, al termine delle indagini che hanno visto impegnati i pm Francesco Curcio (oggi alla Dna), Alessandro Milita, Vincenzo Piscitelli (oggi procuratore aggiunto) Fabrizio Vanorio, Henry John Woodcock. Spiega il procuratore Colangelo: «Una sentenza che non ha precedenti, la tesi accusatoria è stata condivisa dal giudice e per noi questo è importante, anche se si tratta solo di un primo grado di giudizio. Da parte nostra non c'era valutazione sulla insindacabilità del diritto di voto, abbiamo sostenuto che non si poteva fare mercimonio del voto o della promessa di voti. Ora aspettiamo le motivazioni, il verdetto di oggi stabilisce che il voto non può essere oggetto di vendita». Soddisfazione in aula da parte dei pm, anche rispetto alle accuse filtrate in questi anni di aver condotto e voluto un processo politico teso a censurare una sfera protetta dalla Costituzione. Spiega il procuratore Colangelo: «L'ufficio è stato sempre sereno e compatto, nonostante qualche parola di dissenso all'esterno, oggi c'è la soddisfazione per la condivisione del Tribunale delle nostre tesi». Ma cosa accade ora con questo verdetto? Una vicenda che fa i conti con la mannaia della prescrizione, che dovrebbe scattare il prossimo sei novembre, difficile pensare che in pochi mesi si possa definire il processo nei tre gradi di giudizio.
In aula è stata battaglia fino all'ultima udienza. Anche ieri mattina, i difensori di Berlusconi (i penalisti Michele Cerabona e Niccolò Ghedini), di Lavitola (Amedeo Barletta, Marianna Febbraio, Antonio Nobile) e di Forza Italia (Franco Coppi e Bruno Larosa), avevano battuto su un punto: ammesso pure che ci sia stato scambio di denaro, non c'è prova del reato, di fronte a quanto stabilito dalla Costituzione, che sancisce il diritto di ogni parlamentare di cambiare appartenenza politica in ogni momento della propria attività. Una tesi che ha fatto però i conti con alcuni elementi emersi nel corso del processo: da un lato la confessione di De Gregorio, che in questa vicenda ha patteggiato una condanna a un anno e otto mesi dinanzi al gup, al termine della fase preliminare delle indagini; dall'altro invece una lettera riconducibile a Valter Lavitola, con la quale il presunto faccendiere chiedeva a Berlusconi cinque milioni di euro, per una serie di «servigi», tra cui aver risolto il caso De Gregorio. Stando alle indagini napoletane, sarebbe stato lo stesso Lavitola a portare valigette di denaro a Palazzo Madama, sostenendo con «banconote da cinquecento» l'inizio della cosiddetta «operazione libertà» rispetto al governo Prodi. E non è tutto. Nel corso del processo sono venuti fuori altri punti di forza delle indagini, che devono aver pesato nella lunga camera di consiglio della prima penale: come i settanta conti correnti riconducibili a De Gregorio scovati al termine degli accertamenti del nucleo di polizia tributaria della guardia di Finanza di Napoli. Decine di conti - anche all'estero - su cui sarebbero transitati soldi vestiti da elargizioni politiche al movimento di De Gregorio. Pagamenti «frazionati» («come avviene per le tangenti», sostengono i pm), che hanno scandito gli ultimi mesi di vita del governo Prodi, accompagnati anche dal presunto (al momento non dimostrato) coinvolgimento di altri esponenti della maggioranza di centro sinistra del Senato di allora.
Ora tocca ai giudici (presidente Serena Corleto, a latere Russo e Baldassarre) motivare la condanna dei due puntati: se si calcolano i 90 giorni per il deposito delle motivazioni e i 45 necessari per l'impugnazione, il processo di appello avrà inizio quando già sarà tutto coperto dalla prescrizione. Una mannaia che si abbatte su un'inchiesta nata alla fine del 2012 grazie alla confessione di De Gregorio (finito agli arresti per la gestione de L'Avanti), che potrebbe far registrare altri verdetti nel merito solo se gli imputati decidessero di rinunciare alla prescrizione.
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