Oleodotti e trivelle, «supertecnici» esercitati al rischio

Oleodotti e trivelle, «supertecnici» esercitati al rischio
Martedì 21 Luglio 2015, 02:48
3 Minuti di Lettura
Stefania Piras
Parma. Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla. Sono i nomi dei dipendenti Bonatti rapiti in Libia domenica sera.
Due siciliani, un sardo e un romano: Calcagno è di Piazza Armerina, in provincia di Enna, Failla è di Carlentini, nel Siracusano, mentre Tullicardo è della provincia di Roma e Piano è originario di Capoterra, in provincia di Cagliari.
Si tratta di super tecnici che hanno a che fare con trivelle e oleodotti da anni. Come il sardo Fausto Piano, meccanico di 60 anni, che era entrato in Bonatti nel 1991 e ora è supervisore. Piano si trovava in Sardegna fino a una settimana fa per una vacanza ma da molti anni lavora all'estero, e come città di residenza, nel suo profilo Facebook, ha Tripoli.
Anche Filippo Calcagno, 65 anni, sposato con due figlie, ha una rodata esperienza: è uno che ha girato il mondo come tecnico Eni prima di lavorare per la Bonatti. A Parma sono tecnici molto conosciuti, vista la grande esperienza maturata all'interno dell'azienda e nelle filiali libiche. Avevano continuato a lavorare in nord Africa nonostante dal 15 febbraio anche l'ambasciata italiana avesse chiuso i battenti.
Non era nemmeno la prima volta che viaggiavano lungo la rotta che dalla Tunisia porta i tecnici italiani alla Stazione di Compressione di Mellitah, sulla costa libica e, dopo tutto, non si erano registrati particolari problemi nelle zone dove si trovano gli impianti dell'Eni.
Domenica sera stavano rientrando dalla Tunisia per raggiungere la zona da cui parte Greenstream, il gasdotto più lungo del Mediterraneo, tra Libia e Sicilia, costruito dodici anni fa da Eni e che pompa gas a mezza Europa. Una zona blindatissima, quella che circonda l'impianto, delimitata da un recinto e costantemente sorvegliata.
A Parma, quando la notizia si è diffusa, l'azienda si è trasformata in un bunker impenetrabile di silenzio e attesa. Le auto entravano e uscivano spedite dallo stabilimento di via Nobel, nel quartiere artigianale della città. Volti tirati e occhi bassi. L'imperativo aziendale del silenzio non è stato mai tradito e anche il numero uno Paolo Ghirelli ha tirato dritto senza degnare di uno sguardo le numerose telecamere appostate. «Facciamo una preghiera». É l'unica frase scucita in mensa a uno dei giovani dipendenti. «L'ho appreso dalla tv ma non posso dire niente o mi mettete in difficoltà» dice un'altra lavoratrice visibilmente agitata.
Già nel 2011, in piena rivoluzione libica, una squadra del gruppo parmense fu bloccata alle porte della Libia: per risolvere l'incidente furono necessari diversi giorni di trattative. Solo un ex dipendente si è permesso uno sfogo emotivo e ha postato su Facebook la foto di uno striscione «Libertà per Gino Filippo Salvo e Fausto».
Il lenzuolo bianco è appeso ai cancelli della base di Wafa, il secondo centro libico in cui opera la multinazionale parmigiana del gas e del petrolio che in Libia è presente dal 1979. «Quello che è successo in Libia oggi poteva benissimo accadere a me fino ad un anno fa - ha scritto - Ci si reca in quei posti solo per lavorare e non per divertirsi; per farvi arrivare il gas con il quale vi riscaldate in inverno, con il quale vi raffreddate in estate (ebbene si) e con il quale vi fate da mangiare tutto l'anno».
© RIPRODUZIONE RISERVATA