Maternità negata sotto Covid ma una giovane facchina batte tutti davanti ai giudici

Maternità negata sotto Covid ma una giovane facchina batte tutti davanti ai giudici
di Egle Priolo
Venerdì 27 Novembre 2020, 09:48
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Di solito è l'Ispettorato del Lavoro a tutelare i dipendenti. Stavolta la situazione paradossale è ribaltata e finisce davanti a due giudici, vista la decisione dell'ente di opporsi alla prima sentenza favorevole ad Alessandra e al suo datore di lavoro. Ma andiamo con ordine. Il caso locale, avvenuto in Umbria, è finito sotto i riflettori nazionali. Alessandra, 35 anni, dopo aver partorito il suo datore di lavoro le riconosce il diritto di restare a casa per la maternità mentre l'Ispettorato no, anche se lei è impiegata come facchina, un mestiere duro e faticoso, poco compatibile con un post gravidanza. 

La protagonita ha potuto contare sul totale sostegno della azienda e sulle sue ferie per riuscire a stare accanto alla neonata senza rischiare la salute: non solo per i pesi sollevati, ma anche per la pandemia, visto che questa storia parte a marzo, esattamente quando il Covid ha iniziato a fare paura.

A marzo Alessandra - dipendente a tempo indeterminato di una cooperativa che lavora in appalto per uno dei colossi nazionali che si occupano di logistica e trasporti - vede il sorriso della sua seconda bimba.

Inoltra richiesta dell'interdizione post partum, una misura prevista da un decreto legislativo del 2001 che prevede il divieto di rientro al lavoro fino al compimento del settimo mese di età del figlio per le lavoratrici che svolgono attività di trasporto e sollevamento pesi, a tutela della salute della donna. Una norma talmente importante e significativa che la sua violazione è sanzionata con l'arresto fino a 6 mesi.

In questo passaggio il datore di lavoro riconosce il diritto di Alessandra, da marzo a ottobre, mentre invece l'Ispettorato dice no. Rifiuto totale. «Inaspettatamente, asserendo una presunta mancanza dei requisiti previsti (unico requisito previsto è svolgere attività di sollevamento pesi), senza effettuare alcuna attività istruttoria ivi compreso l'accesso sul luogo di lavoro e senza valutare i maggiori rischi collegati alla diffusione del Covid. Nonostante, lo stesso ufficio avesse riconosciuto tale diritto nella prima gravidanza» ricorda l'avvocato Nunzia Parra (Studio Brusco & Partners) a cui Alessandra si è rivolta per vedere tutelate le proprie ragioni.


A luglio il giudice dà loro ragione, ribadendo «l'esposizione della ricorrente al rischio lavorativo della movimentazione manuale dei carichi» e condannando l'Ispettorato al pagamento delle spese legali. L'amministrazione presenta addirittura reclamo contro l'ordinanza, ma perde nuovamente, con il collegio presieduto dal giudice Teresa Giardino che giudica «non persuasivo il tentativo del reclamante».


Insomma la battaglia finisce dopo otto mesi nei quali Alessandra non è andata a lavorare sfruttando le sue ferie, i permessi, la banca ore e soprattutto il supporto del datore di lavoro che comunque non l'avrebbe fatta tornare in sede neanche nelle more del giudizio. Non ha perso nulla, neanche lo stipendio pieno, ma non ha neppure vinto, si dirà. «No, ho vinto l'esigibilità di un diritto», dice lei con forza. Ha vinto una battaglia per le donne, ha vinto un precedente. Che nel mondo delle persone sempre pronte a difendere i diritti di tutti dalle storture  vale molto più di un risarcimento.

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