Chico Forti, per il governo è l’anti-Salis: «Successo ottenuto grazie al silenzio»

Decisiva la mediazione sottotraccia della diplomazia di Roma: «Come per Zaki e Piperno»

Chico Forti, per il governo è l’anti-Salis: «Successo ottenuto grazie al silenzio»
Chico Forti, per il governo è l’anti-Salis: «Successo ottenuto grazie al silenzio»
di Andrea Bulleri
Domenica 19 Maggio 2024, 00:12 - Ultimo agg. 11:12
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Qualcuno, negli ambienti diplomatici, la chiama la regola del silenzio. E il principio suona più o meno così: meno si alza la voce in pubblico, più alte sono le probabilità di portare a casa un risultato, quando in ballo ci sono rapporti delicati con un altro Paese. È il codice di condotta che 18 mesi fa ha consentito di riportare in Italia senza troppi clamori Alessia Piperno, la blogger trentenne romana detenuta per un mese e mezzo in una prigione irachena. Lo stesso modus operandi, rivendica chi ha lavorato al caso alla Farnesina, che l’estate scorsa ha permesso il rientro a Bologna di Patrick Zaki. Poi della famiglia Langone, tenuta prigioniera in Mali per due anni. E che nelle ultime settimane è stato decisivo per il via libera a riportare a casa Chico Forti.

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Chico Forti, la diplomazia

Un lavorìo diplomatico intenso, quello che per mesi è andato avanti sottotraccia attorno al rientro del 65enne trentino condannato all’ergastolo a Miami.

Tutto era cominciato già durante il govenro Conte II, quando il ministro degli Esteri era Luigi Di Maio. La svolta però è stata più recente. Ed è maturata anche grazie alla preziosa opera di mediazione portata avanti da due diplomatici italiani di stanza negli Stati Uniti: l’ambasciatrice a Washington Mariangela Zappia e il console generale a Miami Michele Mistò. Lo stesso funzionario che sta seguendo da vicino la vicenda di Matteo Falcinelli, il venticinquenne arrestato, «incaprettato» e picchiato dalla polizia della Florida.

Antonio Tajani, che appena insediato alla Farnesina aveva dato vita a un gruppo di lavoro ad hoc nella direzione italiani all’estero, e poi sollevato il caso con Anthony Blinken nel primo colloquio col segretario di Stato americano, ne è convinto: «Si ottengono questi risultati quando si lavora in silenzio, senza fare polemiche». Parole, quelle del ministro degli Esteri, ribadite da diversi esponenti dell’esecutivo e della maggioranza, da Luca Ciriani a Elisabetta Casellati, da Maurizio Lupi a Giorgio Mulè, fino al vicepremier Matteo Salvini («il governo mantiene le promesse»). E in cui è facile leggere tra le righe un paragone col caso di Ilaria Salis. Nel quale invece, è convinzione di chi alla Farnesina si occupa del dossier, toni più bassi avrebbero giovato alla causa della maestra 39enne detenuta a Budapest, alla quale sono stati da poco riconosciuti i domiciliari.

Non che una «giusta esposizione mediatica» non possa talvolta rivelarsi utile. Al contrario: sulla vicenda Salis gli appelli della famiglia hanno sicuramente «contribuito a smuovere le acque» in una fase iniziale. «Ma il confine tra ciò che può fare bene e ciò che invece diventa dannoso è molto labile», è la riflessione. E nel caso della maestra milanese, «non è accusando di continuo di il sistema giudiziario ungherese di poca o nessuna imparzialità che si facilita la chiusura della vicenda in modo positivo e in tempi brevi».

 

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Profilo basso

Un profilo basso invece, è convinzione dell’esecutivo, in questi casi aiuta. Come dimostra il caso Chico Forti: per il rientro si temeva di dover attendere mesi, invece le pratiche per l’estradizione sono state gestite «speditamente» dal ministero della Giustizia di Carlo Nordio. Dove un ruolo centrale nella partita viene attribuito agli ottimi rapporti tra Meloni e Biden, con la premier italiana che aveva sottoposto il caso di persona al presidente Usa. Dall’alleato a stelle e strisce è arrivata però una condizione: non accogliere Forti come un eroe. Anche per questo, Meloni ha scelto un approccio “light”: un’unica foto insieme e un breve post. «Fiera del lavoro del governo, ci tengo a ringraziare nuovamente la diplomazia italiana e le autorità degli Stati Uniti per la loro collaborazione». Un risultato al quale ha contribuito – nessuno lo nega – il fatto che Ron DeSantis, il governatore della Florida, da due mesi non sia più in corsa per la nomination repubblicana alla Casa Bianca: in quel caso, la prevedibile accusa di aver lasciato andar via «un ergastolano», come è percepito Forti negli Usa, difficilmente avrebbe detto sì all’estradizione. Già, perché anche gli equilibri politici del Paese in questione contano (e parecchio), quando si tratta del rimpatrio di un connazionale detenuto. «Ed è quasi sempre meglio – chiosano dalla Farnesina – entrare in queste dinamiche con il passo felpato della diplomazia, piuttosto che con dichiarazioni roboanti».

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