Franco Battiato, un oceano di silenzio

Franco Battiato, un oceano di silenzio
​Franco Battiato, un oceano di silenzio
di Massimo Cotto
Mercoledì 19 Maggio 2021, 00:16 - Ultimo agg. 07:06
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E adesso chissà se gli sarà più facile trovare l’alba dentro l’imbrunire, se riuscirà ad attraversare lo spazio e la luce per non farti invecchiare. Con Franco Battiato se ne va uno degli artisti più completi della nostra storia ed è una lacerazione difficile da gestire a livello musicale e umano. Combatteva da tempo una malattia a cui i familiari e gli amici non hanno mai dato un nome, come se privare di nome una malattia potesse aiutare a combatterla o, addirittura, negarne l’esistenza. Abbiamo tutti (quasi tutti) provato a nasconderlo e a nasconderci, a dire che, in fondo, mica era detto. E ogni volta a chiederci: «Come sta, Franco?», sapendo già la risposta. A riassumere la sua parabola artistica si rischia di non percorrere le vie che portano all’essenza. Perché Battiato era molto di più di quello che ha fatto.

IL DESTINO
Quando nasce, la sua città si chiamava Ionia, mentre oggi è Riposto.

Un segno del destino, per un artista che ha cambiato faccia e stili con grandezza camaleontica. Se nemmeno la tua città rimane la stessa, perché dovresti esserlo tu? Lascia la sua Sicilia a vent’anni, dopo la morte del padre camionista. A Milano, incredibile ma vero, si innamora della nebbia, comincia a frequentare un locale chiamato Club 64. Gli altri – Paolo Poli, Jannacci, Toffolo, Pozzetto e Lauzi – fanno cabaret, lui apre la serata con due improbabili canzoni in siciliano finto barocco. Unisce per la prima volta il senso delle radici con il senso dell’umorismo (più tardi con Fiorello, alla radio, sarà straordinario). Prova a sperimentare, a cercare la sua via. I primi, timidi tentativi sono di musica leggera, poi arriva la sperimentazione, le sonorità elettroniche, le atmosfere a tratti surreali. Siamo nella prima metà degli Anni Settanta. 

LA SPERIMENTAZIONE
Il primo disco, Fetus (la cui copertina, con l’immagine di un feto, fu censurata) è assurdo, tra genialità e follia, i seguenti non sono da meno. Battiato, sull’esempio di John Cage, sale sul palco, accende un registratore con musica inascoltabile e poi se ne va. Il pubblico, spesso, lo rincorre. A volte, lo prende. La fase successiva è egualmente geniale, ma più scanzonata, ricca di riferimenti letterari, giochi di parole, citazioni, esotismo. Si appassiona alle culture orientali, studia il sufismo. È una nuova idea di canzone e contaminazione, che mette a punto con Giusto Pio. Battiato mescola cultura alta e bassa, con ritmi irresistibili e immediati. La Voce del Padrone è l’album della svolta, il successo è devastante. Battiato non si accontenta. A ogni nuovo disco introduce varianti rispetto al precedente dando vita a una meravigliosa cattedrale postmoderna dalle guglie altissime. Parallelamente sviluppa una carriera di compositore colto, in opere strumentali complesse. Si trasferisce a Milo, alle pendici dell’Etna, a Catania, tra muri di pietra lavica e stanze che sanno di vino perché il parquet è stato costruito con il legno di antiche botti. Scrive ballate come E ti vengo a cercare che si rivolgono a un destinatario ambiguo, che potrebbe essere un uomo, una donna o un essere superiore.

TECNO HARD ROCK
Dal 1994 collabora con il filosofo Manlio Sgalambro, poi vira verso il rock (o, come lo definisce lui, un «tecno hard rock intellettuale») in Gommalacca, con Campi magnetici torna all’avanguardia, con i tre episodi di Fleurs rilegge a modo suo i classici della canzone italiana e francese e poi via verso nuovi lidi, alternando sufismo e lieder, miti e simboli, collage e canzoni che sembrano quasi salmi. Il 17 settembre 2017, l’ultimo concerto al Teatro romano di Catania, poi la salute peggiora. Battiato si ritira lontano dagli occhi del mondo. La gente prima si interroga, poi capisce. Qualsiasi cosa sia, non se ne andrà tanto facilmente. Il 18 ottobre 2019 esce l’inedito Torneremo ancora. I suoi collaboratori annunciano che sarà l’ultimo brano. Franco Battiato non tornerà più sulle scene. Poi, la notizia, non possiamo dire inattesa. E la mente va ai mille ricordi. A quella volta che dovevamo partire per San Pietroburgo, per intervista e foto sulla Prospettiva Nevskij. Il giornale aveva già fatto i biglietti. Una settimana prima mi chiama: «Non posso più partire, devo andare a prendere mia zia all’aeroporto». Non può andare un’altra persona? chiedo io. «Certo, ma lei preferisce me». Spettacolo.
A New York, per il suo primo concerto in America. Era il 1999, io soggiornavo al Chelsea Hotel, lui nel più comodo Michelangelo. Era inverno. C’erano 14 gradi sotto zero. Camminava per New York, sotto la neve e nella bufera, come nel centro di Catania. Colbacco in testa, cappottone e sorriso fisso. Solo quando parlavamo di viaggi, mostrava insofferenza. «Si viaggia per non essere turisti. L’esotismo è finito ai primi del Novecento. Già vent’anni fa, alle Piramidi, gli italiani mi braccavano per un autografo, rovinando il momento dell’incontro con il passato e con una cultura altra. Tutto uguale, oggi, da piazza San Babila ai monasteri tibetani. Non c’è più voglia di viaggiare, solo di foto ricordo». Quanto è vero.

Ci salutammo con un abbraccio e un’ultima domanda. Eravamo alle porte di un nuovo millennio. Il tuo augurio per il futuro? gli domandai. E lui: «Auguro a tutti di avere quello che non vogliono. Pensa come sarebbe piacevole trovare ciò che non ti aspetti». Proprio questa frase rimbomba nella mia mente come un piatto che cade in una chiesa vuota. Pensa come sarebbe stato bello trovare quello che non ci aspettavamo, il miracolo di una guarigione, proprio tu che avevi cantato La cura. Ti sia lieve la terra, amico. La stagione dell’amore viene e va. La tua resta.
 

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