L'omicidio del generale dalla Chiesa, il 3 settembre del 1982 l'attentato: i misteri e i dubbi sulla strage di via Carini

Il 3 settembre del 1982, veniva assassinato dalla mafia il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso a Palermo, in via Isidoro Carini, in un attentato nel quale persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo

L'omicidio del generale Dalla Chiesa: i misteri e i dubbi sulla strage di via Carini
L'omicidio del generale Dalla Chiesa: i misteri e i dubbi sulla strage di via Carini
Lunedì 9 Gennaio 2023, 13:30 - Ultimo agg. 16 Gennaio, 10:12
9 Minuti di Lettura

Il 3 settembre del 1982, veniva assassinato dalla mafia il generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso a Palermo, in via Isidoro Carini, in un attentato nel quale persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. Stasera in tv su Rai 1 andrà in onda la prima puntata di una miniserie dedicata proprio al genereale dalla Chiesa intolata "Il Nostro Generale". Sergio Castellitto interpreterà il generale che ha lottato contro le Brigate Rosse. 

Il Nostro Generale, stasera in tv la serie con Sergio Castellitto che racconta la battaglia di Dalla Chiesa contro le BR: trama, cast e puntate

L'omicidio del generale Dalla Chiesa: come è morto

Come è morto il generale Dalla Chiesa? Il 6 aprile del 1982 venne nominato prefetto di Palermo dal Consiglio dei Ministri con l'incarico di contrastare Cosa nostra così come aveva fatto nella lotta al terrorismo. Il governo, allora presieduto da Giovanni Spadolini, sperava che il generale riuscisse a ottenere, con la mafia siciliana, gli stessi risultati che era riuscito ad avere nel contrasto al terrorismo, soprattutto grazie al cosiddetto “fenomeno del pentitismo”. Erano stati diversi infatti i militanti delle Brigate Rosse, di Prima Linea e di altre formazioni armate, a collaborare con la giustizia grazie a dalla Chiesa. Le loro rivelazioni avevano consentito centinaia di arresti e, di fatto, lo smantellamento delle organizzazioni terroristiche. Dalla Chiesa, che all'epoca aveva 62 anni, non era certo di accettare quell'incarico. A convincerlo fu poi il ministro dell’Interno Virginio Rognoni con cui aveva collaborato a lungo nel periodo più duro di lotta al terrorismo.

Perché era in Sicilia

Nel capoluogo siciliano fu ucciso pochi mesi dopo il suo insediamento. Il generale e la moglie, il 3 settembre del 1982,  erano a bordo di una Autobianchi A112, mentre l’agente di scorta li seguiva con un’Alfetta a poco più di una decina di metri. Vennero affiancati da due auto e due moto di grossa cilindrata da cui furono sparati circa 300 colpi con un mitra AK-47, un Kalashnikov. Setti Carraro era alla guida dell'auto e quando cominciarono a partire i colpi dalla Chiesa tentò di farle scudo con il proprio corpo, ma furono raggiunti da decine di proiettili e morirono sul colpo. Il poliziotto di scorta cercò di reagire ma fu colpito a sua volta e morì in ospedale dopo 15 giorni. Sul fatto che quella sera fosse stato destinato alla scorta di dalla Chiesa un solo agente ci furono poi molte polemiche.

Mafia, sequestrati beni per 40 milioni a Giovanni Pilo, sigilli anche a Roma. Le rivelazione di Buscetta e il sacco di Palermo

Il generale fu una delle figure simbolo della lotta alla criminalità organizzata, e prima nella lotta dello stato contro il terrorismo. Dalla Chiesa fu spedito in Sicilia e divenne martire dopo poco più di tre mesi: raggiunto all'uscita della Prefettura da un commando mafioso che aprì il fuoco con un Kalashnikov ak-47 verso il generale e sua moglie, non risparmiando neanche l'agente che li seguiva a bordo di un'Alfetta.

Raffaele Ganci, morto boss fedelissimo di Riina. Era tra i responsabili dell'omicidio di Dalla Chiesa

Le confessioni di Buscetta

Tommaso Buscetta, ex mafioso e il più celebre collaboratore di giustizia della storia italiana, disse, interrogato da Giovanni Falcone: «La sera del 3 settembre, qualche ora dopo l’assassinio di dalla Chiesa ero all’hotel Regent di Belem, sul Rio delle Amazzoni, con Gaetano Badalamenti e guardavamo la televisione. Quando venne trasmessa la notizia, Badalamenti commentò dicendo che quel delitto doveva essere stato un atto di spavalderia dei corleonesi». Sia Buscetta sia Badalamenti si erano rifugiati in Brasile per sfuggire ai corleonesi guidati da Totò Riina.

Gli uomini di Totò Riina erano allora nel pieno della cosiddetta “Seconda guerra di mafia” contro i clan Inzerillo e Badalamenti. La guerra che durò 3 anni, dal 1981 al 1984 causò circa 600 morti e si concluse con la vittoria dei corleonesi. Dieci anni più tardi, furoni proprio i corleonesi gli autori delle stragi di Capaci e via D’Amelio, e della strategia stragista contro lo Stato.

Buscetta rivelò sempre a Giovanni Falcone anche altro: «Badalamenti disse ancora che qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante del generale».

​A lezione di cinema con Favino: «Da Craxi a Buscetta, così ho cercato di capire la loro essenza»

I timori del generale prima della morte

In un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca tre settimane prima di essere ucciso, Dalla Chiesa diceva di essere in attesa che il governo gli fornisse quegli strumenti che lui aveva chiesto necessari per la lotta alla mafia. «Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati» e poi disse: «Vedremo a settembre.

Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze». 

A spiegare nel dettagli come avvenne l'omicidio furono Anzelmo e Ganci, nel 2000, dopo essere diventati collaboratori di giustizia. Un agguato, quello del 3 settembre, preparato per settimane dal “fondo Pipitone”, nel quartiere dell’Acquasanta di Palermo, vicino ai cantieri navali. La proprietà della famiglia mafiosa Galatolo, che controllava la zona, divenne il quartier generale in cui pianificare l’attentato. Totò Riina assegnò il compito di organizzare l’omicidio ad Antonino Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino e Pino Greco detto Scarpuzzedda. Furoni scelte e delineate le strade, gli itinerari e la squadra che avrebbe agito: Giuseppe Lucchese, Raffaele Ganci, Antonino Rotolo, Giovanni Montisi, Francesco Paolo Anzelmo e Vincenzo Galatolo. 

19 febbraio 1977 Muore la cantante Clelia Cantalamessa

L'ultima telefonata di Emanuela Carrero alla mamma

Quella mattina Emanuela Setti Carraro, sposata da qualche mese con il generale, parlò con la madre al telefono e le disse di non poter andare a Milano perché avrebbe dovuto lasciare il marito da solo. Disse anche che erano stati dimenticati da coloro che li avrebbero dovuti tutelare.

La ricostruzione dell'attentato

Nel pomeriggio del 3 settembre 11 uomini della mafia si riunirono al fondo Pipitone e da lì andarono in un garage di proprietà di Antonino Madonia, dove presero auto e moto precedentemente rubate. Poi tornaro nel loro "quartier generale" e ne uscirono poco prima delle 19. Si fermarono in uno slargo all’inizio di via Carini. Quella sera Emanuela andò in prefettura a prendere il marito. I due uscirono da villa Whitaker, sede della prefettura, alle 21 e Dalla Chiesa disse a Roberto Sorge, il suo capo di gabinetto: «Stiamo andando a Mondello a mangiare il pesce». L’auto dei coniugi Dalla Chiesa imboccò via Carini alle 21 e 10. «Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo venivano attaccati e investiti da una pioggia di piombo che cagionava la morte dei tre maciullandone ferocemente e svisandone quasi del tutto i lineamenti del viso. Alle forze dell’ordine si presentò una scena pietosamente agghiacciante». È Giovanni Falcone a raccontare quanto accaduto dopo le 21.10. A sparare contro Dalla Chiesa e la moglie fu Antonino Madonia che era a bordo di una BMW con Calogero Ganci. Domenico Russo fu ucciso da Pino Greco “Scarpuzzedda” che era su una delle due moto. La Fiat 131 guidata da Anzelmo aveva una funzione di scorta. Le moto e le auto usate nell’agguato furono successivamente bruciate. Rimane oscuro il motivo per cui fuì uccisa anche Emanuela Carrero. Tre le "regole" della mafia c'era quella, infranta" altre volte, di non toccare le donne, ma forse la moglie di Della Chiesa sapeva troppo.

Carlo Alberto dalla Chiesa, 40 anni fa l'agguato mafioso che costò la vita anche alla moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente Domenico Russo

La sentenza e le ombre

La sua sfida alla mafia, cominciata a Corleone come giovane ufficiale dei carabinieri e proseguita a Palermo tra gli anni Sessanta e Settanta, era ripresa il 30 aprile 1982. Era stato appena ucciso Pio La Torre e Dalla Chiesa aveva dovuto affrettare i tempi per assumere di corsa l'incarico di superprefetto. Con il governo era stato chiaro: veniva per indagare anche sulla "famiglia politica più inquinata dell'isola", con un riferimento al gruppo andreottiano siciliano. Il suo progetto era quello di colpire la struttura militare di Cosa nostra e di spezzare il sistema di collusioni tra mafia e politica. Quei poteri reclamati e promessi non gli erano stati ancora conferiti quando venne ucciso - era il 3 settembre 1982 - con la moglie Emmanuela Setti Carraro e il suo collaboratore Domenico Russo. Sin dall'annuncio della nomina Cosa nostra preparava la sua offensiva. "Quando ho sentito alla televisione che era stato promosso prefetto per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete", raccontava Totò Riina al capomafia pugliese Alberto Lorusso in una conversazione intercettata in carcere.

A sparare fu un gruppo di fuoco di Cosa nostra, ma c'era una «causale non direttamente ascrivibile alla mafia», così dichiaro Pietro Grasso quando da procuratore nazionale antimafia, si chiese se si potesse affermare che «tutta la verità è stata accertata»: una domanda che resta ancora aperta 40 anni (quasi 41) dopo la strage, come hanno sottolineano i giudici della corte d'assise: «Si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale'». Così si legge nella sentenza che ha condannato all'ergastolo con la cupola Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia.

L'unica cosa certa l'ha scritta una mano anonima nel luogo dell'attentato: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». Allo sgomento della città fece eco l'anatema del cardinale Salvatore Pappalardo: «Mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata». Sagunto, cioè Palermo, era stata messa a ferro e fuoco da un sistema criminale che Dalla Chiesa aveva subito svelato con un rapporto contro 162 boss: il nucleo originario del maxiprocesso a Cosa nostra. Sul fronte delle collusioni le iniziative del generale, hanno scritto ancora i giudici, erano un «campanello d'allarme per chi traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nel mondo degli appalti».

I segnali

In quei cento giorni Dalla Chiesa ricevette segnali terrificanti. Il primo a giugno con la strage della circonvallazione: furono uccisi il boss Alfio Ferlito, l'autista del furgone che lo stava trasferendo da un carcere all'altro, tre carabinieri della scorta. Un mese dopo venne compiuta tra Bagheria e Altavilla Milicia, il famigerato «triangolo della morte», una mattanza culminata con un duplice omicidio: i cadaveri vennero caricati su un'auto lasciata davanti a una caserma dei carabinieri. Era l'ultimo atto della sfida. «L'operazione Dalla Chiesa è conclusa», fu la rivendicazione mandata al giornale L'Ora. Non era, per la verità, ancora conclusa se subito dopo toccò proprio al generale. La '"coesistenza" di interessi, di cui parla la sentenza, incombe su uno dei tanti misteriosi episodi con cui Dalla Chiesa faceva i conti. La sera del delitto qualcuno andò a cercare nella residenza del prefetto lenzuoli per coprire i cadaveri. Ma allargò lo sguardo verso la cassaforte dove il generale teneva documenti scottanti, tra cui un dossier sul caso Moro. Quando la cassaforte fu aperta era vuota.

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA