Linus: «Vengo dalla fabbrica ma adesso sono il numero uno»

Linus: «Vengo dalla fabbrica ma adesso sono il numero uno»
Linus: «Vengo dalla fabbrica ma adesso sono il numero uno»
di Maria Elena Barnabi
Domenica 11 Ottobre 2020, 09:24 - Ultimo agg. 16 Febbraio, 10:40
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Gli occhi sono quelli azzurri di sempre, anche se circondati da qualche rughetta, e la faccia è quella dell'eterno ragazzo sorridente. Linus, nome d'arte di Pasquale Di Molfetta, 63 anni il 30 ottobre, nato a Foligno ma cresciuto a Paderno Dugnano (Milano), è da più di vent'anni il numero uno delle radio italiane. Da 26 è il direttore di Radio Deejay, che - secondo gli ultimi dati RadioTer - con quasi 5,2 milioni di ascoltatori è la terza emittente in Italia. Dal 1991 Linus conduce anche Deejay chiama Italia, il programma del mattino campione di ascolti che dal 1997 lo vede in compagnia di Nicola Savino, suo alter ego, che spesso ironizza sulla sua vanità facendogli il verso del pavone. Nel 2005 Linus, maratoneta appassionato (acciaccato, adesso va in bici) si è inventato la Deejay Ten, una corsa amatoriale di 5 e 10 chilometri, che a causa del Covid quest'anno - è in programma oggi - è diventata digitale e si può correre ovunque grazie a un'app dedicata. Gli iscritti stavolta sono 15 mila, l'anno scorso erano 40 mila.

Soddisfatto?

«Moltissimo.

Di solito alla radio questo evento frutta tre milioni di euro, stavolta meno».

Di questi tempi è oro.

«Durante il lockdown c'è stata la crisi della pubblicità. I clienti credevano che le persone accendessero la radio solo mentre andavano al lavoro. Invece gli ascolti sono andati alla grande. Professionalmente sono stati i tre mesi più emozionanti in assoluto».

Stasera alle 21 tutte le principali radio italiane trasmetteranno insieme lo show I love my radio, l'evento finale che decreterà la vincitrice delle 45 cover trasmesse durante l'estate. La crisi vi ha uniti?
«Di solito non ci parliamo mai tra colleghi, il nostro ambiente è pieno di cattiverie e pettegolezzi. Invece in primavera mi chiama Lorenzo Suraci, il numero uno di Rtl 102.5, per propormi questo progetto a cui ho aderito subito. È andata bene: stasera presenta Gerry Scotti, mio grande amico, che ha accettato per farmi un piacere. Abbiamo iniziato insieme nel 1976 a Radio Milano 2, a Cinisello Balsamo».

Prima di fare il dj in radio lei ha fatto l'operaio.
«Vengo da una famiglia pugliese molto modesta, che si è trasferita a Milano negli Anni 60. Ci ho messo anni a superare la vergogna. Nome: Pasquale, in una città di Ambrogio. Cognome: Di Molfetta, nella terra dei Brambilla Quando non sono stato ammesso agli esami della quinta superiore, i miei mi hanno spedito in fabbrica. Ci sono stato per due anni, da 19 a 21 anni. Otto ore in catena, poi tre ore ai corsi di scuola serale, poi in radio fino a mezzanotte».

Anni formativi?
«Fondamentali. La fabbrica nel 1977 mi ha insegnato il lavoro vero, la fatica. Per anni sono andato avanti con la radio facendo la fame. Arrivato alla mitica Radio Milano International, ero in stallo. Così nel 1984 partii per le vacanze dicendo: a settembre torno e mi cerco un lavoro vero».

Invece arrivò la chiamata di Claudio Cecchetto.
«Sì. Mi volle a Radio Deejay, la sua radio, che era già la migliore. Sono andato in onda il primo ottobre, e dopo un mese ero già in tv su Italia 1 a Deejay Television con Gerry. Uno sliding door pazzesco».

Peccato che dieci anni dopo i rapporti siano finiti malissimo.
«Cecchetto vendette la sua radio, e poi cercò di riprendersela. Non ci riuscì e la proprietà la affidò a me e a mio fratello Albertino. Gli venne un rancore ingiustificato, non mi parlò per quindici anni, finché lo invitai alla festa per i trent'anni della radio. Non eravamo intimi, comunque, né lo siamo tuttora».

Con Platinette invece,, nome d'arte di Mauro Coruzzi, che ha cacciato nel 2012 eravate amici?
«Mauro non era più in sintonia con la radio, ci riprovammo una seconda volta, ma si era persa la magia, e tutto finì nuovamente nel 2015. Lui si arrabbiò, ma io non lo feci per cattiveria, gli voglio ancora bene e spero di avere occasione di dimostrarglielo».

Parla come un fidanzato che molla la ragazza di cui si è stufato.
«Lo dico con un po' di narcisismo: nella mia carriera in radio ho un sacco di fidanzate ripudiate. Ma il mio lavoro è cambiare le cose prima che gli ascoltatori cambino canale. Purtroppo queste scelte coinvolgono anche rapporti personali».

Con Fabio Volo come va? Si favoleggia di scenate con urla.
«Tutte leggende. A lui piace fare la vittima perché da bambino il padre gli dava poche attenzioni. È vero che ogni tanto gli faccio un'osservazione, ma sono il capo. Magari un paio di volte possiamo aver alzato la voce. Nell'ultimo anno, però, con la sua crisi matrimoniale ci siamo avvicinati, roba da uomini di esperienza».

Si riferisce al fatto che anche lei e sua moglie vi siete separati? Lo ha raccontato nel suo ultimo libro Fino a quando.
«Sì. Era giusto dieci anni fa, il settembre del 2010. I nostri due figli erano ancora piccoli. Poteva essere l'inizio della fine. Invece ci siamo ritrovati e adesso stiamo molto meglio di prima».

Cosa vi ha salvato?
«Il sesso. È una cosa che ci fa sorridere: stiamo assieme da trent'anni, ma è come se fossero pochi mesi».
Torniamo alla radio: lei ha intervistato quasi tutti i cantanti italiani e stranieri. L'episodio più curioso?
«George Michael, il cantante numero uno al mondo negli Anni Ottanta, arriva in radio, prende una sigaretta da un pacchetto sul tavolo, l'accende e gli scoppia una miccetta in faccia. Era Carnevale e qualcuno aveva manomesso il pacchetto. Lui scoppiò a ridere, noi ragazzi anche. Ai discografici venne un mezzo infarto».

L'ospite più antipatico?
«Sting, e lo dico soffrendo, da grande fan dei Police. Durante le pause dell'intervista leggeva i quotidiani, e poi in diretta faceva finta di non capire le nostre domande in italiano. Il classico snobismo inglese. Trattò me e Nicola Savino come se fossimo due ragazzi di bottega».

Appunto, Savino. Con lui, dopo 25 anni, come va?
«Ormai siamo una coppia di fatto. Stiamo insieme al mattino, e al pomeriggio ci ignoriamo. Andiamo alla grande».

Altri colleghi cui si sente molto legato?
«A parte Gerry, nel mio cuore c'è Fiorello. Venne in radio nel 1998 e girava sempre con una valigia rigida, da cui uscivano calzini e maniche di camicie. Era estate, girava scalzo, veniva da anni di vita allo stato brado nei villaggi turistici. Sembrava appena sceso da un cammello. E poi c'è Jovanotti: arrivò giovanissimo con il suo cappellino alla rovescia e il suo hip hop e fu un ciclone».

La proprietà della radio pochi mesi fa ha cambiato tutti i direttori, lei è stato promosso. È davvero così bravo?
«Certo. In Italia non c'è nessuno più bravo di me a fare questo lavoro. Ma non è stata una promozione, solo una formalizzazione. Senza aumento».

In assoluto qual è stata la sua più grande intuizione?
«Essermi inventato la radio con le coppie di personaggi e aver trasformato le chiacchiere nella parte centrale del programma. Che poi è la sola cosa che gli altri non ti possono rubare: i dischi ce li hanno tutti, ma Fabio Volo, La Pina, Alessandro Cattelan e il Trio Medusa ce li abbiamo solo noi».

E i giovani?
«I quindicenni per noi sono persi: hanno Spotify e la radio non l'ascoltano. Li prendi dopo i vent'anni, con la musica».

Chi è il suo erede?
«Non c'è. Mi toccherà lavorare ancora un po'».
 

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