«Al di là dei sogni», il riscatto oltre le fiamme

«Al di là dei sogni», il riscatto oltre le fiamme
di Simmaco Perillo *
Lunedì 18 Luglio 2016, 20:28
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Ersamo, Enrico, Luigi, Mariateresa, Bruno, Manuel, Alessandro, Giampietro, Giuseppe, Olga. La cooperativa “Al di là dei sogni” ha il loro volto, il loro sguardo, il loro sorriso. Ci sono storie di bucce di uomini che la sorte ha sputato in angoli di dolore e sofferenza, spesso dentro luoghi di esclusione e solitudine, a scontare una pena che non ha reato, nasce dalla paura della diversità, dall’incapacità di prendersi cura, farsi carico di chi è più fragile. Gli ultimi, quelli che muovono tra i respinti i loro passi, gli esclusi, oggi, sui terreni confiscati al clan Moccia a Maiano di Sessa Aurunca, ogni giorno costruiscono “il bene”, una comunità intitolata ad Alberto Varone, dove la libertà è terapeutica dentro un’utopia che si fa realtà quotidiana, con le mani sporche di terra, i volti vestiti dal sole, i camici macchiati di frutti e verdure coltivati, raccolti e poi trasformati nel primo impianto biologico sorto su un bene confiscato alle mafie in Italia.

Siamo sul confine nord della Campania, dove il Garigliano fa sponda col Lazio, in “terra di lavoro”, terra maltrattata e umiliata, eppure terra ancora straordinariamente fertile e bella, tra il mare e le montagne, dove alla banalità del “non può essere altrimenti” si è opposta la caparbietà di chi crede che “al di là dei sogni” può esserci la realtà sognata. Ci vuole fatica, certo, quella dura dei campi, quella, a volte estenuante, delle relazioni. E l’inciampo diventa la regola. Ma è regola anche attendere chi è caduto, accogliere la sua debolezza, andare con lui lungo la strada, sempre nuova, viandanti di un cammino che si fa camminando. Insieme. Anche quando, come la settimana passata con un incendio doloso su 4 ettari di terreno, c’è chi questo andare prova a fermarlo.

A passare oggi su quei pezzi di terra anneriti, tra il giardino della memoria e un campo di noci, tornano a mente i tanti, troppi fotogrammi di terreni dati alle fiamme, soprattutto d’estate, nel sud Italia, tra la Sicilia, la Calabria, la Campania, la Puglia, a voler “dare un segnale”, a voler costruire paura, a isolare le cooperative, i ragazzi che hanno voluto coltivarli dopo che lo Stato li aveva sottratti ai clan. Incendi innescati e controllati tra l’inizio e la fine dei campi confiscati, in un perimetro ben delimitato, ché il messaggio deve essere chiaro, “qui comandiamo ancora noi”. Ma è un potere vigliacco quello che prova a bruciare in una notte la speranza coltivata un anno intero, e l’intimidazione finisce col mostrare debolezza, ché la bellezza vince mille a zero sulla violenza. E sono bellezza quelle centinaia di ragazzi provenienti da tutt’Italia, soprattutto per i campi estivi promossi da “Libera. Associazione nomi e numeri contro le mafie”, ma anche i tanti, singoli cittadini, associazioni, comitati di questo territorio, che nei giorni immediatamente successivi all’incendio di Maiano, si sono riversati su quei terreni, a sporcarsi i piedi, le mani, i volti, per dire che quella è terra nostra, non sarà mai più cosa loro. E ancora si sono dati appuntamento per sabato 23 luglio sul bene confiscato, nell’ambito del “Festival nazionale dell’Impegno Civile/ Le terre di Don Peppe Diana”, la manifestazione promossa dal Comitato Don Peppe Diana e dal coordinamento provinciale di Libera Caserta, la prima kermesse in Italia, ormai alla sua nona edizione, interamente realizzata sui beni sottratti alle mafie. Il tema di quest’anno, quanto mai pregnante, è “il coraggio delle scelte”.

Tanti hanno già dato la loro adesione, e dopo l’incontro con Salvatore Borsellino alle 15,00, dalle 17,30 si alterneranno per portare un messaggio di solidarietà che nasce dal fare, dall’essersi incontrati e dal continuare a realizzare, in questi anni e per il tempo a venire, una rete di persone, associazioni, istituzioni, enti, imprese che rifiutano le parole celebrative del nulla per ritrovarsi su progetti concreti e idee di sviluppo sostenibile e inclusivo, economico e occupazionale, sociale e culturale. Perché le attività promosse sul bene confiscato “Alberto Varone” e nelle altre realtà della rete di economia sociale che si sta sviluppando, a partire dal “Consorzio NCO- Nuova Cooperazione Organizzata”, non si sono mai fermate, guardando immediatamente #aldilàdelfuoco, come recita uno degli hastag utilizzati per il lancio dell’iniziativa del 23.

Tra i tanti progetti in campo, proprio in queste settimane, grazie al sostegno di “Fondazione con il sud” e dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” di Roma, il Consorzio NCO, in partenariato con altre cooperative e con il Forum Nazionale di Agricoltura Sociale, ha avviato un ambizioso intervento di innovazione sociale e ricerca/azione per sviluppare il riutilizzo dei terreni confiscati attraverso l’agricoltura sociale. Il progetto, denominato “Ru.S.H, Rural Social Hub against mafia”, punta, nell’arco dei prossimi 18 mesi, a costruire, proprio sul bene confiscato Alberto Varone, il primo hub dedicato alla coltivazione dei terreni confiscati secondo i dettami individuati dalla recente normativa di specie sull’agricoltura sociale. Un luogo fisico e virtuale di incontro e confronto che punta ad essere anche un incubatore d’impresa per le nuove realtà sociali e imprenditoriali che vorranno cimentarsi con il riutilizzo di beni confiscati in agricoltura. Si realizzerà anche un monitoraggio e un censimento, su scala regionale, delle realtà che sono nate sui terreni confiscati e di quelle che realizzano agricoltura sociale, puntando alla definizione di un possibile modello di intervento.

Al di là dei sogni c’è un orizzonte che è fatto di donne e di uomini, giovani e anziani, a partire da quelli che sono ancora considerati “gli ultimi”, e persegue un’idea semplice e per questo, forse, rivoluzionaria: le persone sono valore, il bene relazionale è, insieme, il patrimonio più prezioso che possediamo e l’investimento più importante da realizzare. Sono i volti, gli sguardi, i pianti, le risate, le parole, le intuizioni, la rabbia, le speranze, i corpi di quanti hanno attraversato e attraversano i beni tolti ai clan, a fare della confisca uno strumento fondamentale nella lotta alle mafie e, allo stesso tempo, una straordinaria occasione di sviluppo territoriale. Lo dimostrano centinaia di esperienze nate in tutt’Italia, e particolarmente quelle del casertano. Lo dimostrano anche quei roghi che ancora continuano ad appiccare per provare a fermare tutto questo.

Ma non ci riusciranno, almeno finché non riusciranno a impedirci di sognare. E ancora sogneranno tutti quelli che saranno a Maiano il 23 mentre, nello spiazzo accanto al “cammino dei cento passi” dedicato alle vittime innocenti di camorra, la serata sarà chiusa da un conviviale falò, ché bisogna riappropriarsi, anche con ironia, delle parole e delle azioni. Fosse ancora vivo, attorno a quel fuoco, Miro avrebbe preso la sua foglia, l’avrebbe arrotolata, trasformandola in armonica, iniziando a suonare. Miro era stato internato al campo di concentramento di Dachau e poi, per quarant’anni, nel manicomio di Aversa. Solo negli ultimi anni della sua vita, accolto su questi territori dai ragazzi di queste cooperative, aveva ritrovato il suo essere persona. E, nonostante l’orrore che aveva conosciuto, continuava a raccontarti dell’orizzonte di “una bellezza troppo bellezza”, fatto dalla musica, che lui aveva imparato bambino. E forse per questo ti salutava, sempre, augurandoti buona vita. Qualche anno fa, avrebbe dovuto raccontare la sua storia salendo su un palco di una festa di piazza. Ma quella notte, ormai anziano e provato dalle fatiche della vita, andò in coma e morì. Tenere viva la sua storia, continuare a raccontare il suo racconto, è il dovere di chi, con Calvino, ancora crede che bisogna “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, inferno non è, e farlo durare, e dargli spazio”. Attorno al falò del prossimo 23 luglio, ancora suoneranno le foglie di Miro, ancora ci saluteremo augurandoci “buona vita”.

* Coop. “Al di là dei sogni”
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