Napoli e la strage degli innocenti
perché lo Stato ha le sue colpe

di Marcello Ravveduto
Lunedì 17 Ottobre 2016, 21:36
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Negli ultimi 15 anni sono stati uccisi 36 minorenni, 25 dei quali tra 0 e 12 anni. Nel 2004 il prefetto Profili, con un’ordinanza, impediva la vendita di coltelli per disarmare i giovani killer. Nel 2007 il cardinale Sepe invitava i camorristi a deporre le armi all’interno delle chiese napoletane. Eppure, dal 2013, omicidio dopo omicidio, siamo chiamati a riflettere sulla violenza scatenata dalla “paranza dei bambini”, che ha già condotto all’arresto di 43 giovanissimi affiliati alla camorra. Nell’ultimo anno sono stati compiuti più di 40 omicidi tra i quali si annoverano almeno 4 giovanissimi (Luigi Galletta, Genny Cesarano, Maikol Giuseppe Russo, Ciro Colonna) vittime delle cosiddette stese di camorra. La morte è parte del vissuto quotidiano dei guagliuni ‘e miezze ‘a via, non tutti criminali ma sicuramente collaterali e/o suggestionati dal fascino suadente de ’O Sistema.

La Fondazione Polis l’ha definita la strage degli innocenti. A dire il vero la presenza dei minori all’interno delle dinamiche dei clan metropolitani è un dato di lunga durata. Talmente persistente da aver sviluppato una sua specifica letteratura e cinematografia dando luogo ad un immaginario collettivo dentro cui si collocano diverse generazioni di giovani delinquenti: dal contrabbando della Golden age al narcotraffico della Globalizzazione.

Quanti libri e film ci hanno raccontato le storie di ragazzi marginali che sceglievano la camorra per eludere la fatica del lavoro manuale e dello studio ripiegando sull’immediato benessere criminale? Verso la fine degli anni Settanta, il cantante neomelodico, ancora minorenne, Patrizio cantava: «Tribunale! Questa condanna che mi dai, la dai alla miseria di Napoli e a tutta la società! La colpa non è mia se non sono andato a scuola e sono cresciuto sul marciapiede. Cosa ho studiato, te lo voglio raccontare: le scuole elementari a fare lo scugnizzo, la prima media a rubare, la seconda a scippare, la terza a rapinare. Cosa potevo fare se la scuola del marciapiede questo ci insegna? Tribunale, non mi dare un’altra condanna, dammi una penna tra le mani, insegnami a studiare… L’italiano non lo conosco, per me è una lingua straniera, non riesco a comprenderlo». Questo testo è il capostipite di tutti i giustificazionismi pauperisti e vittimari che ancora dominano il racconto del contesto criminale napoletano.

Eppure in questo lamento plebeo si riconosce allo Stato non solo la capacità repressiva (il Tribunale) ma anche quella preventiva (la Scuola); anzi, si reclama lo studio come forma di emancipazione civile. Proviamo a fare un raffronto con una canzone dell’ultimo decennio: “’A società”, interpretata da Gino Ferrante. Nell’incipit del videoclip c’è un ragazzino di circa 10 anni che sta uscendo di casa. La madre lo rincorre e dice: «Devi andare a scuola»; lui le risponde: «Ma’ a me la scuola non ha dato niente». Nella scena successiva quel bambino è diventato un giovane boss a capo di una paranza che spaccia droga e commette omicidi contro adulti “infami”. Il suo unico mondo è “’a società”, ovvero il clan che ha preso il posto della famiglia naturale. Non basta. A trent’anni di distanza dalla canzone di Patrizio notiamo che questi ragazzini vedono solo la funzione repressiva dello Stato: non c’è più l’aspirazione all’emancipazione meritoria ma solo il richiamo ad una ricchezza materiale che ti può condurre verso due sole strade: il Tribunale o il cimitero. Non è più il tempo delle giustificazioni vittimistiche, ma siamo sicuri che noi tutti, in quanto cittadini italiani, abbiamo compiuto il nostro dovere nei confronti della «miseria e Napule»?
 
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