Di Maio, le telefonate con il segretario Pd e i timori per la base

Nicola Zingaretti, telefonate con Di Maio
Nicola Zingaretti, telefonate con Di Maio
di Simone Canettieri
Venerdì 23 Agosto 2019, 07:55 - Ultimo agg. 14:08
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La trattativa tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti sale e scende. Sembra impennarsi, poi si congela e riprende quota. Dopo l'intervista del segretario dem al Messaggero, il leader pentastellato reagisce così con i suoi: «Mi vogliono far passare da traditore: non esiste. Non pugnalerò mai alle spalle Conte». Quando poi dal Pd fanno trapelare i tre punti veri su cui non trattare, a partire dallo stop alla riforma Fraccaro sul taglio dei parlamentari, il partito del voto subito riprende quota. A capeggiarlo sono Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone. La situazione si blocca quando Di Maio, prima di salire al Colle da Mattarella, scrive in chat a Zingaretti: «Vado a dire che apro al Pd».

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SORPRESA
La notizia che il vicepremier proporrà 10 punti gira tra i big del Nazareno. Ma poi durante la dichiarazione pubblica, ecco la sorpresa: Di Maio non nomina mai il Pd. Una chiusura, una mossa strategica, l'intenzione di lasciare aperto un forno con la Lega? In verità, Di Maio ha soprattutto un problema interno. Non con i suoi parlamentari bensì con la base, il corpo elettorale, dimezzato alle ultime Europee. Ecco perché Grillo continua a dire: «I nostri ci capiranno, Salvini va punito». Il fondatore continua a essere «sparato» sull'accordo con il Pd.
 



Così come Roberto Fico: il presidente della Camera nelle ore in cui il taglio dei parlamentari sembra uno scoglio dispensa comunque fiducia sull'esito della trattativa: «E' un problema superabile», è il ragionamento del leader dell'ala ortodossa. Di fatto l'80% dei 300 deputati e senatori M5S sono per l'abbraccio con quello che fino a poco tempo fa era il nemico numero uno. Il primo a saperlo è proprio Di Maio che infatti non pronuncia la parola magica fino a quando non entra in assemblea congiunta. Al Quirinale d'altronde si era limitato a dire pubblicamente - dopo invece aver aperto al Pd al cospetto del presidente Mattarella - che «sono state avviate tutte le interlocuzioni per avere una maggioranza solida che voglia convergere sui punti indicati. Noi non lasciamo affondare la nave, che a pagare siano gli italiani». Una stoccata a Salvini considerata per non definitiva da Zingaretti che si aspettava invece parole chiare.

Ritornato alla Camera, Di Maio accelera: «Noi ci siamo! Uniti e compatti! Forza!». Poi la svolta. L'assemblea dei gruppi M5S ha dato mandato per acclamazione al capo politico Luigi Di Maio e ai capigruppo Stefano Patuanelli e Francesco D'Uva ad incontrare la delegazione del Pd. E qui però inizia subito il primo problema tecnico. C'è un'altra telefonata tra Zingaretti e Di Maio nel corso della quale il segretario del Nazareno dice al vicepremier che prima dell'incontro tra gli sherpa «dobbiamo vederci noi». Il vertice ci sarà oggi. E anticiperà dunque quello più tecnico tra le delegazioni, previsto nel pomeriggio, fissato ufficialmente nella tarda serata di ieri. Ovviamente il M5S sa che nel Pd ci sono tante anime: Zingaretti è pronto a inviare non solo i capigruppo (Delrio e Marcucci) ma anche i vice Orlando e De Micheli.

Ma prima, alla base di tutto, serve un faccia a faccia che serva a partire il treno tra «Luigi e Nicola».Il segretario dichiara: «Dalle proposte e dai principi da noi illustrati al Capo dello Stato e dalle parole e dai punti programmatici esposti da Di Maio, emerge un quadro su cui si può sicuramente iniziare a lavorare».
Se da una parte è complicata, «ma non impossibile», la strada di un accordo giallorosso, dall'altra Di Maio dà per persa quella che preveda un ritorno con Salvini. «Le sue parole al Colle sono un disco rotto? Io non mi fido più di lui». I rapporti tra i due vicepremier sono inesistenti. Nonostante nel M5S c'è chi speri ancora nel colpo a sorpresa. Ma gli uomini più vicini a Di Maio fanno un altro ragionamento: «Salvini sarebbe capace di mettersi seduto al tavolo e far saltare tutto subito per andare al voto». I dieci punti d'altronde sono una mano tesa al Pd e una porta in faccia alla Lega.
 

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