«Io aspetto il voto degli italiani prima di fare qualsiasi commento, poi il Presidente della Repubblica sceglierà come è giusto che sia». È mezzogiorno quando il segretario federale della Lega, Matteo Salvini, prima di un'incontro elettorale a Bari, gela con poche parole l'intervento di Giorgia Meloni e la sua convinzione che, ove mai dovesse vincere le elezioni, il Capo dello Stato non potrebbe far altro che chiamarla per formare il nuovo governo. Quasi a tutelare implicitamente le prerogative costituzionali e gli spazi di autonomia del Colle, Salvini contesta, seppure con toni felpati, questa sorta di automatismo in radice proposto dalla Presidente di Fratelli d'Italia.
Salvini su Meloni premier
Automatismo che viene accolto con freddezza anche da Forza Italia.
La posizione di Berlusconi
Poi, però, sul punto cruciale del suo incarico, si limita a ricordare il patto stabilito nel centrodestra secondo cui «chi prende più voti ha diritto ad indicare al presidente della Repubblica un nome». Niente di più, niente di meno. Ma è il leader leghista che invece, anche senza accendere alcuna polemica, esorcizza ogni fuga in avanti e di fatto sfida apertamente la leadership di Giorgia Meloni ribadendo che a suo giudizio la partita tra loro è tutt'altro che chiusa. «Tutti dicono che il centrodestra abbia già vinto. Calma. Sono convinto - aggiunge Salvini - che il centrodestra possa vincere, sono convinto che la Lega possa prendere un voto in più di tutti gli altri, ma non impongo nomi e ruoli a nessuno e men che meno al presidente della Repubblica». Insomma, il segretario della Lega, pur non citando espressamente Giorgia Meloni, sembra voler impartire una lezione di bon ton istituzionale alla sua alleata-rivale.
La situazione
Del resto la storia politica italiana insegna che non necessariamente il leader del partito di maggioranza relativa debba essere indicato come premier, la cui scelta è infatti frutto delle indicazioni di tutti i gruppi parlamentari al Capo dello Stato. In caso contrario non sarebbero mai andati al governo né Bettino Craxi, né Giovanni Spadolini, solo per fare due esempi illustri dei tempi del Pentapartito con la Dc forza politica di maggioranza relativa. Detto questo, una costante di questa campagna elettorale è che nel centrodestra, il solo fatto di citare Mattarella crea dissapori e imbarazzi. Due settimane fa si registrò un duro scontro, tra Forza Italia e Fdi, ma allora a parti invertite. Quella mattina, rispondendo a una domanda durante un intervista radiofonica Silvio Berlusconi disse: «se la riforma presidenziale entrasse in vigore sarebbero necessarie le dimissioni di Mattarella». Scoppiò una bufera e alla fine toccò a Ignazio La Russa correggere così l'ex premier: «Credo che sia prematuro discutere oggi del tema di Mattarella, ben prima che la riforma presidenziale si compia. Inoltre l'ipotesi delle dimissioni necessiterebbe il suo consenso: l'idea di una Presidenza con il cartellino di scadenza non è la più adatta. Non critico Berlusconi ma crediamo che frapporre elementi di discussione non aiuti il raggiungimento dell'obbiettivo comune».