Sabino Cassese: «Lo Stato aiuti la Capitale e partecipi alla gestione»

Sabino Cassese
Sabino Cassese
di Andrea Bassi
Mercoledì 9 Settembre 2020, 00:06
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Professor Sabino Cassese, il governo prova di nuovo ad accelerare sull’autonomia chiesta dalle Regioni del Nord. Eppure durante la pandemia il modello regionale non ha dato prova di grande efficienza, basti pensare alla Sanità. Non sarebbe forse il momento di mettere davvero ordine nel riparto delle competenze tra Stato e Regioni?
«Una scelta difficile. La logica e il buon senso vorrebbero che prima si facesse un bilancio, dopo vent’anni dalla riforma del 2001. E questo specialmente perché l’assetto della sanità, in particolare, si è dimostrato poco funzionale. Ma la politica non segue sempre la logica e il buon senso. Poi, si dovrebbe passare alla differenziazione. E, prima della differenziazione, bisognerebbe sapere quante regioni intendono differenziarsi. Ufficialmente, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Ma altre avevano fatto passi verso la differenziazione. Si è fatto un bilancio quantitativo preliminare?».

 

Sabino Cassese: "Il rafforzamento del Campidoglio deve essere un interesse dello Stato"

Professor Cassese, il governo starebbe per assegnare una specifica delega su Roma Capitale a un sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A lei che è fra i più illustri giuristi italiani, le sembra una buona idea? "Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento", è scritto nell'art.


Rispetto al passato la bozza di legge quadro del governo introduce alcune novità, come la necessità di garantire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Ma si tratta di principi già presenti nel nostro ordinamento. Basta questa enunciazione ad evitare che i divari tra le Regioni si allarghino?
«La bozza di disegno legge che stabilisce i criteri sostanziali e procedurali della differenziazione costituisce un passo avanti rispetto alla discussione avviata qualche anno fa. Quella puntava direttamente agli accordi bilaterali. Lo schema di disegno di legge che è ora disponibile stabilisce un quadro unitario. La novità va salutata con favore. Inoltre, vengono fissati criteri verso l’alto (unità dell’ordinamento) e verso il basso (rispetto delle autonomie locali). Infine, viene stabilito che si debbono fare verifiche del funzionamento delle intese tra Stato e Regioni con autonomie differenziate. Tutti passi nella giusta direzione, in modo che l’autonomia differenziata alla fine non diventi un’autonomia “à la carte”».

C’è sullo sfondo il tema di Roma. Il regionalismo differenziato inevitabilmente sottrarrà competenze alla Capitale. Ma è possibile ridisegnare così profondamente l’architettura dello Stato senza porsi il problema del ruolo di Roma?
«In astratto la posizione di Roma fa parte di un diverso capitolo. Stiamo parlando di due diverse statuizioni costituzionali. Tuttavia, non si può ignorare la drammatica situazione romana. Ormai un intervento statale è necessario, con uno statuto e responsabilità, nonché controlli di risultato che tengano conto che a Roma non convergono soltanto interessi locali, ma anche interessi dell’intera comunità statale, quindi nazionali».

Che ruolo andrebbe dato alla Capitale?
«Uno statuto speciale, una partecipazione statale nella sua gestione, che va aiutata, perché né la classe dirigente politica, né le strutture amministrative ormai reggono più. Tutto è fatiscente, dai Municipi al Campidoglio».

L’impressione è che da tempo a questa parte i governi in qualche modo stiano privilegiando le città del Nord, anche dal punto di vista della localizzazione di strutture amministrative. È accaduto con Milano in occasione della candidatura per l’Agenzia del Farmaco prima e con quella del Tribunale dei Brevetti adesso. Perché Roma viene costantemente esclusa da queste competizioni?
«Se Roma continua a restare in queste condizioni, chi vuole che abbia il coraggio di proporre la collocazione nella capitale di uffici di organizzazioni europee o internazionali? Già la FAO sta incontrando tutti gli inconvenienti di una città tanto male amministrata».

Il Regionalismo differenziato del Nord è stato propagandato con la volontà di mantenere nelle ricche regioni settentrionali buona parte del cosiddetto “residuo fiscale”, il surplus di tasse generato in quei territori. Per questo si è parlato di una “secessione dei ricchi”. Il nuovo testo mette realmente al riparo da questo rischio?
«Aver fatto partire la richiesta di autonomia differenziata dal tema del residuo fiscale (datemi tutto quello che raccogliete in imposte sul mio territorio) è stato un errore grave, che ha fatto fallire la richiesta. Ora sembra che si parta in termini più ragionevoli, muovendo dai livelli essenziali delle prestazioni (i cittadini hanno diritti eguali sia che siano campani o lombardi), sottolineando che si tratta di quote di tributi erariali (lo Stato è il collettore, e poi redistribuisce), lasciando lentamente da parte la spesa storica per arrivare ai fabbisogni standard e ai livelli essenziali. Insomma, i propositi sembrano buoni. Poi, c’è l’articolo sulla perequazione infrastruttturale, che comprende scuole, sanità strade e autostrade, porti, aeroporti, reti idriche, elettriche e digitali».

Una delle questioni di cui si è molto dibattuto, è la possibilità del Parlamento di modificare le intese tra lo Stato e le Regioni. Il nuovo testo parla della possibilità del Parlamento di proporre “osservazioni” alle pre-intese. E’ sufficiente perché venga rispettato il ruolo delle Camere?
«Viene prevista una procedura cauta. Consiglio dei ministri, intesa preliminare, esame e delibera parlamentare, passaggio al governo e alla regione, approvazione del Consiglio dei ministri, infine sottoscrizione». 
 
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