Usuraio condannato, una barista
finita nella sua rete: «Si era presentato
come un benefattore, poi l'inferno»

Usuraio condannato, una barista finita nella sua rete: «Si era presentato come un benefattore, poi l'inferno»
di Nicoletta Gigli
Venerdì 2 Luglio 2021, 07:48 - Ultimo agg. 08:18
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TERNI «Ero diventata una larva, firmavo carte e fatture senza sapere quello che stavo facendo. Sono finita in cura dallo psichiatra e in quei mesi terribili ho tentato anche di farla finita. A chi combatte, e sono tanti purtroppo, con finti benefattori che ti aiutano a uscire dalle difficoltà economiche dico solo di trovare la forza e il coraggio di denunciare». Bruna Pinelli la battaglia per la giustizia l’ha vinta dopo dieci, interminabili anni. Tanto sono durante le indagini e poi il processo di primo grado per far luce su una serie di episodi con vittime alcuni commercianti titolari di bar e di ristoranti a Terni e provincia. Le indagini portate avanti dalla squadra mobile e coordinate dal pm, Elisabetta Massini, partite nel 2011, si sono chiuse con la sentenza del tribunale di Terni che ha condannato Gianni Rossi, 64 anni, di Narni, agente di una nota ditta fornitrice di caffè finito a processo per usura, estorsione e truffa, a cinque anni e due mesi di reclusione e al pagamento di una multa da mille e 500 euro. Il collegio presieduto da Rosanna Ianniello l’ha condannato anche al risarcimento dei danni, da liquidarsi in sede civile, subiti dalle parti civili costituite: la moglie e la figlia dell’allora titolare di un bar di San Giovanni, e Bruna Pinelli, all’epoca titolare di un bar di Fornole. Nelle carte d’accusa è stata ricostruita la figura di Rossi, che si presentava come un amico pronto a prestare i soldi per “aiutare” le attività in crisi. Una volta acquisito il potere però le sue vittime, per l’accusa, finivano in un tunnel senza via d’uscita. 
«Le cose non andavano bene, avevo un figlio da crescere, ero in difficoltà per pagare le due dipendenti e gli chiesi una mano perché avevo paura che mi toccassero casa - racconta Bruna. All’inizio mi disse di no poi mi richiamò per dirmi che sarebbe entrato in società. Da quel momento in poi sono stata trattata peggio di un garzone. Mise dentro le sue dipendenti che riscuotevano gli incassi e io non ero più padrona di niente. Ho dovuto subire anche l’umiliazione di ricevere 200 euro a settimana dalle mani della ragazza che aveva messo a lavorare”. Il racconto di Bruna è sintetizzato nelle carte del processo che si è chiuso con la condanna di Rossi che “con minaccia implicita di azionare gli assegni bancari rilasciati da lei a garanzia di un prestito erogato, la costringeva a emettere fatture per operazioni inesistenti a favore delle sue società ed emettendo Rossi assegni volti a dissimulare la fittizietà delle fatture, assegni il cui importo veniva riscosso da Rossi. Successivamente, a fronte dell’impossibilità per Bruna Pinelli di restituirgli l’importo dell’ultimo prestito da 11mila euro, costringendola a tollerare che riscuotesse tutti gli incassi pari a 400 euro al giorno e ad occuparsi dell’amministrazione e contabilità.. successivamente costringendola a uscire dalla società senza richiedere la restituzione delle proprie quote pari al 50 per cento della società». Durante l’ultima udienza di un processo che sembrava non finire mai Francesca Carcascio, legale di Bruna Pinelli, ha sottolineato il “ruolo di ammortizzatore sociale dell’imputato nel praticare quello che, in altri ambiti, viene definito welfare di prossimità”. Bruna, uscita con grande fatica dal tunnel della depressione, ora fa la badante ma ancora oggi non riesce a parlare senza piangere di una parentesi della sua vita che vorrebbe solo cancellare per sempre.
«Ero prostrata, prendevo gli psicofarmaci per cercare di non pensare, ero come in trance.

Non potevo toccare la cassa del mio bar, non potevo fare gli ordini però continuavo a firmare fatture per degustazioni ed eventi mai realizzati senza sapere quello che stavo facendo. A travolgermi - dice con un filo di voce - è stata la paura dei debiti che mi ha spinto a chiedere aiuto finendo in un tunnel buio». Il suo pensiero va a chi, piegato dalla crisi post pandemia, si affida a persone pronte a dare una mano: «Le storie purtroppo sono tutte simili. Per arginare certi fenomeni l’unica strada è nel coraggio di denunciare».

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