Baby boss e jihadisti, cosa c'è in comune

Baby boss e jihadisti, cosa c'è in comune
di Isaia Sales
Domenica 20 Agosto 2017, 10:28
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Terrorismo e criminalità organizzata sono stati nel corso della loro storia fenomeni sociali assai distinti, differenti negli scopi. Il terrorismo ha sempre motivato la morte che infliggeva agli altri in base ad una ideologia, la criminalità lo ha fatto sempre per interessi materiali.

Ciò significava cambiare il mondo per i terroristi, goderne i piaceri per i criminali. Parafrasando la famosa affermazione di Osama bin- Laden, i terroristi amano la morte, i criminali amano la vita. L'unica cosa che spesso li ha accumunati è la modalità di agire, cioè l'agguato, una tecnica usata per sorprendere i «nemici», prenderli alla sprovvista così da esporsi ad un minore pericolo di reazione. Sia i terroristi sia i criminali, dunque, si avvalgono di tecniche d'azione poco «onorifiche», ma dotate di una evidente razionalità: uccidere in agguato serve a eliminare il pericolo che si attivi un terzo attore oltre la vittima e l'aggressore, cioè il testimone, ed evitare così guai e complicazioni. Per i terroristi, invece, la finalità dell'agguato ha un'altra spiegazione, cioè l'effetto «diffusivo» in base al quale nessuno si deve sentire al sicuro: chi oggi l'ha scampata deve temere ogni giorno che possa capitare a lui.

Ma il jihadismo rappresenta un'assoluta novità nella storia del terrorismo politico o religioso: chi lo pratica quasi sempre pone fine alla sua vita nel corso delle proprie azioni assassine, sacrifica la propria vita nel toglierla ad altri. Prima dello jihadismo solo le «Tigri tamil» avevano praticato il suicidio durante o dopo le azioni terroristiche; non a caso sono stati loro ad inventare le cinture esplosive.
Nel corso della storia i terroristi hanno sempre messo in conto di poter morire nel corso delle loro attività, ma puntavano a cavarsela, sia per dimostrare che si potevano sfidare le istituzioni senza conseguenze (e minarne così la credibilità) sia per essere pronti per nuove azioni, dato il numero limitato di persone di cui erano composte le cellule. Anche i criminali organizzati, e in particolare i mafiosi, hanno sempre messo nel conto la possibilità della loro morte violenta, ma la finalità era sopravvivere agli avversari: morire da vecchi nel proprio letto, dopo una vita di delitti, era il massimo del loro potere, della loro forza, e della loro sfida ai nemici. Terroristi che si suicidano, o mafiosi che usano la violenza come fine e non come mezzo per raggiungere uno scopo, si discostano dalla tradizione.

Dunque, non è del tutto azzardato il confronto che negli ultimi tempi è stato proposto tra alcune modalità di azione dei terroristi jihadisti e quelle praticate dai giovani camorristi napoletani. Entrambi hanno un rapporto con la morte del tutto particolare: sembrano cercarla mentre la danno, e ne sentono forte la fascinazione. Chi cerca la morte o si fa accompagnare da essa come un'ombra, non ha niente da negoziare ma ha solo da distruggere. Non colpisce tanto il comune disprezzo verso qualsiasi forma di autotutela mentre commettono azioni assassine, ma il considerare la violenza come unica forma di identità.

Nel caso dei giovani camorristi napoletani, essi vogliono suscitare negli altri la paura e non tanto il rispetto. E si sa che solo la violenza che crea rispetto dura nel tempo nell'universo mafioso, mentre quella che incute unicamente paura produce reazioni che alla fine minano l'organizzazione stessa.

La cosiddetta «stesa» la si può tranquillamente avvicinare ad un'azione terroristica più che ad una modalità strettamente criminale; perciò non è praticata da nessuna altra organizzazione di tipo mafioso. E la «stesa» ha la stessa inefficacia dell'attentato suicida. Mentre nelle azioni terroristiche tradizionali c'è una certa razionalità di scopo (infliggere perdite ad un nemico attrezzato e potente), in quelle jihadiste no: non è affatto razionale utilizzare per una volta sola delle persone disposte a tutto. Anche nelle «stese» non si ottiene alcun risultato concreto, tranne che radicalizzare gli avversari, allarmare l'opinione pubblica e costringere all'azione di contrasto le forze di sicurezza.


Nei giovani camorristi napoletani c'è in gioco anche una rivolta generazionale verso i capi e al tempo stesso verso la «vita da niente» dei loro genitori, così come in molti jihadisti è presente una volontà di rivolta contro l'acquiescenza dei loro padri. Essi hanno bisogno di fare qualcosa di notevole che li faccia uscire dall'anonimato, e per questo ideologizzano la loro violenza: è giusto ammazzare gli infedeli, è sacrosanto mettere fine alla vita degli infami. Infedeli e infami sono solo dei «non- uomini», e per questo non meritano di vivere. E la loro particolare ideologia la pubblicizzano sul web. Infatti l'altra cosa in comune è la propaganda delle loro azioni e del loro «credo». Vantarsi dei loro omicidi e spiegarli è l'ossessione dei terroristi e dei giovani camorristi. Infine, i profili sociali li avvicinano: sono in genere amici di infanzia o fratelli che danno vita alle cellule o alle gang, hanno commesso numerosi crimini di strada, si sono radicalizzati e motivati in carcere.


Da che mondo è mondo la radicalizzazione attira soprattutto i giovani. E le forme e le motivazioni possono essere le più disparate: guerre, ideologie, terrorismo o criminalità mafiosa. Chi oggi è disponibile a dare e a darsi morte proviene dai disastri delle periferie di alcune delle grandi città europee (e Napoli è tra queste) e va alla ricerca di un elemento catalizzatore della collera sociale. Nelle retrovie delle città si stanno accumulando giacimenti di violenza che prima o poi troveranno sbocco.

Com'è noto, Olivier Roy ha descritto il terrorismo jihadista non come effetto della radicalizzazione dell'Islam ma come «islamizzazione della radicalità», volendo con questa frase suggerire il fatto che la radicalità giovanile va alla ricerca di sempre nuove cause da seguire, e sicuramente una certa interpretazione della religione islamica ha offerto sponda a questo bisogno. Allo stesso modo si potrebbe parlare di «camorrizzazione della radicalità» nel caso dei giovani violenti napoletani dei quartieri, delle periferie e dell'hinterland. Come al tempo di Cutolo. Sono giovani a cui piace ammazzare la gente. Ma hanno bisogno di un qualcosa che dia senso e giustificazione alla loro pulsione di dominio e di distruzione dell'altro. E la camorra sembra offrirgli questa possibilità.

 
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