Bambina si impicca a scuola per gioco, salvata in extremis. Psicologi: «Stop telefonini ad under 14»

Bambina "gioca" a impiccarsi a scuola, salvata in extremis. Psicologi: «Stop telefonini ad under 14»
Bambina "gioca" a impiccarsi a scuola, salvata in extremis. Psicologi: «Stop telefonini ad under 14»
di Erasmo Marinazzo
Domenica 31 Gennaio 2021, 12:53 - Ultimo agg. 1 Febbraio, 08:55
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LECCE - Una corda ed una sedia nel bagno della sua scuola. Ed il tentativo di una bambina di emulare il gioco che avrebbe causato la morte lunedì scorso a Bari di una bambina di 9 anni. Suo coetaneo. Un hanging challange, una di quelle sfide, la sfida della sospensione nel vuoto, ricorrenti nei social frequentati assiduamente in questi mesi di lockdown dei rapporti sociali dagli adolescenti ed i preadolescenti?

Tragica emulazione?

Lo stabilirà l'inchiesta avviata dalla Procura per i minorenni di Lecce dopo l'allarme arrivato dalla scuola elementare di un paese del Nord Salento a cavallo con la provincia di Brindisi.
La scuola frequentata dalla bambina che appena un paio di giorni dopo la tragedia di Bari ha cercato di emulare la vittima. Perché intanto una certezza l'hanno già acquisita gli inquirenti: la piccola studentessa ha chiarito di non avere cercato di fare altro se non quello che non è riuscito al suo coetaneo del quartiere San Girolamo di Bari.

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Il tentativo della bambina a scuola

Con una differenza sostanziale però: lei ci ha provato a scuola. Ha colto l'occasione del permesso di andare in bagno accordatele da una delle maestre. Intanto si sarebbe attrezzata alla meno peggio per creare un cappio da stringere attorno al collo e per legare l'altro capo ad un sostegno abbastanza robusto per sostenere il suo peso. Se l'intenzione sarebbe stata quella di dare il via ad una hanging challange, non è stata portata termine per un contrattempo che potrebbe averle salvato la vita: alcune compagne di scuola si sono allarmate vedendola armeggiare con l'intenzione di restare appesa in aria con il suo peso. Ed hanno chiesto aiuto al personale scolastico ed alle maestre. La scena è apparsa in tutta la sua drammaticità agli occhi degli educatori. Ed i racconti delle compagne di classe di quella studentessa hanno fatto rompere qualsiasi indugio sull'opportunità di avvisare i servizi sociali e la Procura per i minorenni.

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Indaga la Procura

Perché una bambina di 9 anni viene spinta dallo spirito di emulazione anche per sottoporsi a prove che mettono a rischio la sua vita? Le risposte la stanno cercando il procuratore capo dei minori, Simona Filoni, con gli investigatori della sezione di polizia giudiziaria. Stanno verificando innanzitutto se e quali dispositivi elettronici i suoi genitori le consentono di usare. Se per l'accesso alle app ed ai social le sia lasciata ampia libertà oppure se verificano l'uso ed la quantità di tempo trascorso sui dispositivi elettronici. Infine resta da chiarire perché la morte per asfissia del coetaneo di Bari potrebbe essere diventata per lei una sfida nella sfida a non restare soffocata. Una indagine, dunque, che deve necessariamente entrare nella psicologia della bambina, nella natura dei suoi rapporti sociali e nella relazione con la tecnologia informatica.
Va detto, peraltro, che le indagini della Procura di Bari e della polizia non hanno per il momento trovato un nesso causale tra le challange sui social ed il gioco che ha causato la tragedia. Nessuna certezza, almeno per il momento, che quel bambino sia morto per prendere parte ad una hanging challange.
Ad ogni modo ciò che è accaduto nella scuola di quel comune del Nord Salento è suonato come un campanello d'allarme.

Anche perché solo qualche giorno fa, il 21 gennaio, una bimba di 10 anni di Palermo ha perso la vita partecipando e stavolta non ci sono dubbi - ad una challange. Anche perché tablet e smartphone hanno ormai catapultato adolescenti e preadolescenti nella vita virtuale parallela.

 

La psicologa: non lasciamo i bimbi soli con i social

(di Francesca Pastore) La vita non è un gioco. Non è una sfida mortale davanti al cellulare. Non è resistere ad un soffocamento per un like o uno sguardo in più. E’ amore, ascolto, comprensione, accoglienza. Ma forse gli adulti dovrebbero ricordarlo più spesso ai nostri  ragazzi.
Maria Esposito è psicologa esperta in devianza, Sessuologo clinico, Psicodiagnosta clinico e giuridico peritale, Analista del comportamento, Counselor vittimologico, Docente Unipegaso in Psicodiagnosi clinica e forense e Formatore in vari corsi di formazione e master. Attualmente lavora come Funzionario presso il Dipartimento Presidenza della Regione Calabria ed è libero professionista in ambito clinico e forense all’interno dello Studio peritale associato “Esposito – Schipani”.

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I casi di tentato suicidio nascondono purtroppo un segnale di disagio o un gioco finito male. Perché questo accade?

«Il tentativo di suicidio in età evolutiva è un chiaro segnale di disagio e malessere che non può essere definito come “gioco finito male”. Nel “gioco finito male”, come il caso recente della bambina palermitana, non c’è l’intenzione di voler morire. Quello che invece viene definito come reale tentativo di suicidio è l’intenzione che c’è alla base, da parte del giovane, di voler porre fine alla sua vita che, paradossalmente, in realtà è un forte grido di vita, di voler esistere, di voler essere visto e considerato. I giovani non conoscono mezze misure ed anche per attirare l’attenzione adottare mezzi estremi».

L’obiettivo potrebbe essere quello di attirare l’attenzione dei coetanei e, magari, degli adulti? Quanto contano il consenso del mondo esterno e i like per i nostri ragazzi?

«Una delle ragioni alla base di un tentativo di suicidio è proprio il voler essere visti da parte del mondo adulto e il gesto estremo, qualora dovesse andare a buon fine, non avrebbe altro scopo che lasciare il senso di colpa eterno in chi resta di non aver saputo cogliere i segnali di malessere del giovane. I like, le visualizzazioni, il mondo social non sono altro che un mondo parallelo in cui, in qualche modo, a questi ragazzi viene restituita quella visibilità, ovviamente spesso non sana, che dovrebbero avere e vorrebbero avere nella vita reale dal mondo adulto».

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L’emulazione, dopo i casi dei due ragazzini di Palermo e Bari, potrebbe influire e perché?

«L’emulazione è molto frequente nella fascia dell’età evolutiva. Omologarsi, fare quello che fanno gli altri è un modo per sentirsi parte integrante del gruppo dei pari che è essenziale, soprattutto nel periodo adolescenziale, per la costruzione della propria identità nel mondo sociale. Emulano il bello, ma soprattutto il meno bello perché le neuroscienze ci insegnano che il cervello dei ragazzi è attratto dalle situazioni “al limite”».

Quanta fatica fanno i ragazzi a distinguere la realtà quotidiana da quella virtuale?

«Purtroppo gli eventi di cronaca degli ultimi tempi, ci fanno capire che molto spesso le coscienze di questi ragazzi vengono talmente tanto “sospese” nel mondo virtuale che quasi si va a mescolare a quello reale. Ecco perché poi vediamo anche ragazzini che nella realtà simulano aggressioni a danno di propri coetanei e che magari vedono in video o giochi on line. La capacità di comprendere la linea sottile tra mondo reale e mondo virtuale spesso viene “sospesa”».

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La sfida e la voglia di vincere attrae da sempre i ragazzi. Ma ora le sfide lanciate sulla rete sono mortali.

«La parte frontale del nostro cervello, che controlla i nostri impulsi, non arriva a piena maturazione prima dell’età di 21 anni, ecco perché tutto ciò che i giovani commettono in età evolutiva è più esagerato e, a tratti, crudele. I giovani sono attratti dalle sfide estreme perché il loro cervello, a quell’età, ha queste caratteristiche. Oggi ci sono le sfide sui social. Un tempo, ad esempio, ci si stendeva sui binari dei treni, aspettando che passassero, per provare il brivido di riuscire a scamparla in tempo. I modi sono cambiati, ma la necessità di provare, anche solo per una volta, a sfidare la morte, è identica per i giovani di qualsiasi altra epoca».

Le è mai capitato un caso di tentato suicidio che ha coinvolto un adolescente?

«Assolutamente sì. Una ragazza di 14 anni, autolesionista, figlia di un padre ex detenuto e di una madre straniera. La ragazza viveva male il contesto familiare di appartenenza perché sentiva di avere un “marchio” addosso per via delle vicissitudini giudiziarie del padre. L’essere cresciuta con l’assenza della figura paterna aveva generato in lei un’autostima talmente inesistente da sentire di “essere al mondo per sbaglio” e dunque meritevole di dover porre fine ad una “vita inutile”».

Cosa pensa di Tik Tok ma anche delle app che propongono challenge senza controllo?

«Tik Tok è un social come ne esistono tanti altri e non è quello il vero dramma delle tragedie che accadono oggi ai ragazzi. Viviamo in un mondo ipertecnologico. Non si potrebbe mai eliminare definitivamente i social anche perché hanno pure il loro lato positivo. Sicuramente devono essere maggiormente monitorati da chi li gestisce, evitando di accettare iscrizioni di soggetti al di sotto dei 16 anni di età ma ciò che è realmente necessario è che i genitori non facciano mai accedere a queste piattaforme i bambini e che supervisionino l’utilizzo che ne fanno i ragazzi perché fino a 18 anni esiste la responsabilità genitoriale per cui, ovviamente avvertendolo, il genitore ha il dovere di prendere in mano il cellulare del proprio figlio e vedere che uso ne fa».

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La tecnologia fa parte della vita di ogni bambino, come possono porre maggiore attenzione i genitori?

«I genitori devono evitare ai bambini sotto i 14 anni di avere un cellulare proprio. Il figlio a scuola non ha necessità del cellulare e a casa può tranquillamente usare quello dei genitori. Se poi dovesse chiedere di averne uno per entrare in un gruppo Whatsapp di compagni di classe, può tranquillamente sempre farlo con il cellulare di mamma o papà. Discorso diverso per gli adolescenti a cui non si può e non si deve impedire l’accesso ai social, ma con le dovute e costanti supervisioni».

Ci sono segnali di malessere a  cui porre attenzione?

«I ragazzi che cadono nelle trappole della Rete danno sempre dei segnali emotivi e comportamentali. Si isolano maggiormente, hanno costantemente un umore depresso, tendono ad avere variazioni nel ritmo sonno – veglia e a sviluppare disturbi nell’alimentazione, vivono in un costante stato di allerta e di paura, possono iniziare a fare uso di sostanze ed anche a “farsi del male”, ovvero quello che conosciamo come “autolesionismo”. I genitori hanno la piena responsabilità, non solo del nutrimento materiale, ma soprattutto di quello affettivo nei confronti di questi ragazzi e molto spesso una buona comunicazione, una buona fiducia, presenza e vicinanza, oltre che supporto, da parte dei genitori, anche quando i figli commettono degli errori, possono scongiurare molte tragedie».

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