«Nel 1996 truffa dello Stato
ai danni del Banco Napoli»

«Nel 1996 truffa dello Stato ai danni del Banco Napoli»
di Gigi Di Fiore
Lunedì 14 Settembre 2020, 08:32 - Ultimo agg. 15 Settembre, 08:37
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Da dieci anni vive in Slovenia, dove è ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta. Il principe Mariano Hugo Windisch Graetz è stato il primo, con il fratello Manfred, ad avere avviato, affidandosi agli avvocati Roberto Aloisio e Tommaso La Rosa, una causa contro il ministero Economia e finanze (Mef) da ex azionista del Banco di Napoli. Domani ci sarà la prossima udienza a Roma. E la stessa iniziativa è stata intrapresa dalla Fondazione, come principale azionista pubblico.

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Principe Graetz, come nacque il suo ingresso tra gli azionisti del Banco di Napoli?
«Fu un investimento dettato dal cuore, che mi portò a diventare, con mio fratello, il principale azionista privato del Banco. Mio padre era austriaco, ma mia madre era napoletana. Investimmo nel Banco 70 miliardi di lire».

Disponibilità patrimoniali di famiglia?
«Era parte dei 120 miliardi che ricevemmo come risarcimento, previsto dalla legge del 1985, che il trattato di Osimo riconosceva ai proprietari italiani di beni requisiti dalla ex Jugoslavia. A noi furono requisiti terreni di 60mila ettari».

Perché l'investimento proprio al Banco di Napoli?
«Ci fu proposto da Ferdinando Ventriglia, che voleva internazionalizzare la partecipazione azionaria di un istituto di credito che aveva proprietà e immobili nel mondo, un'enorme varietà di sedi e una secolare e prestigiosa storia. C'era stata la riforma del sistema bancario, con la trasformazione in spa degli istituti di credito di diritto pubblico. Investimmo in azioni con la nostra società Sogesco, in aggiunta ad attività immobiliari legate al Banco in più parti d'Italia».

Cosa accadde nel 1996?
«Ci fu una sofferenza in bilancio, che con i beni immobiliari e i recuperi dei crediti poteva però essere facilmente sanata. Credo che allora si siano invece scatenati interessi politici e economici sulla pelle del Banco. Avvenne quella che io non esito a definire la più grande truffa dello Stato italiano ai danni di una delle più grandi banche del Paese, che aveva avuto sedi persino negli Stati Uniti».

Il ministero del Tesoro azzerò il valore delle partecipazioni azionarie nel Banco?
«Proprio così, ero presente a quella drammatica assemblea degli azionisti nel luglio del 1996. I rappresentanti del Ministero avevano quote minoritarie, tra noi e la Fondazione Banco di Napoli, rappresentata quel giorno dal suo primo presidente, il professore Gustavo Minervini, avevamo più peso, ma prevalse la decisione del governo».

In che modo?
«Ci fu un'imposizione sulla Fondazione, nonostante il professore Minervini fosse contrario all'azzeramento. Minervini scrisse più volte che il disavanzo era recuperabile e che si stavano prendendo decisioni frettolose. Ma non riuscì a opporsi alla volontà del ministero del Tesoro. Il risultato fu l'azzeramento delle quote con la legge di quell'anno che prometteva rimborsi agli azionisti quando la Sga (Società gestione attivi, Ndr) avrebbe concluso il suo compito di recupero dei cosiddetti crediti inesigibili».

La storia ha dimostrato che quei crediti, poi, non erano così tanto difficili da recuperare?
«Proprio così e il professore Minervini lo sosteneva e lo dimostrava sulla base delle garanzie patrimoniali su cui molti di quei crediti si fondavano. Accadde qualcosa di molto brutto e inspiegabile. Le decisioni furono prese e imposte con rapidità eccessiva, quando anche allora i correntisti e i risparmiatori rimanevano in gran parte fedeli al loro Banco di Napoli, un istituto simbolo per la città e per il Sud Italia».

Come riuscì il ministero del Tesoro a imporsi sulla Fondazione?
«Comunque la Fondazione era emanazione pubblica. In quegli anni e nei successivi, oltre al professore Minervini anche il professore Adriano Giannola spiegò bene come sul Banco di Napoli fu attuata una sottrazione patrimoniale e finanziaria rapida e ingiustificata. Era impopolare e impolitico sostenerlo in quegli anni».

Quali furono le principali basi giuridiche di quelle decisioni?
«Di fondo, c'era soprattutto la famosa legge Sindona che non prevedeva esborsi pubblici superiori a quelli delle passività dell'istituto di credito in difficoltà. Su queste basi, sul Banco di Napoli guadagnarono il Ministero, la Sga, le due banche del Nord che ne acquistarono le quote maggioritarie in successione, con modalità e tempi che meriterebbero un'attenta rilettura storica».

Ha fiducia nella causa avviata alla fine del 2018?
«Credo che i tempi siano maturi per decisioni equilibrate su quelle vicende. Impugnammo a Napoli la decisione della famosa assemblea del luglio del 1996, ma il ricorso ci venne respinto. Il clima politico è ora diverso. Confido molto nei giudici e siamo in sintonia con la Fondazione e la sua presidente Rossella Paliotto. Chiediamo ci venga restituito quanto riteniamo ci spetti. In caso di esito favorevole della causa, reinvestirò parte del risarcimento nel Sud e parte lo darò in beneficenza».

Cosa pensa dell'incorporazione del Banco di Napoli nel gruppo Banca intesa?
«Mi intristisce, se penso che il 70 per cento dei risparmi meridionali viene investito al Nord.

Il Banco di Napoli, nei suoi simboli e nella sua storia, dovrebbe essere conservato o rinascere. Nel Mezzogiorno si raccoglie tantissimo credito e io sono legato alla splendida città di mia madre».

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