Bassolino: «La fede di don Riboldi al servizio dei più deboli»

Bassolino: «La fede di don Riboldi al servizio dei più deboli»
di Pietro Treccagnoli
Lunedì 11 Dicembre 2017, 15:17
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Presidente Antonio Bassolino, lei ha conosciuto molto bene don Riboldi e con lui ha condiviso molte battaglie, a cominciare da quella contro la camorra. Qual è stata la sua prima impressione alla notizia della sua scomparsa?
«Di tristezza, ma di una tristezza particolare, serena, potrei dire, perché don Riboldi ha vissuto una bella vita. La giornata è passata tra commozione e affetto. Con lui se ne va un pezzo della mia vita politica. Tra noi si era costruito un forte rapporto umano e culturale. Da lui, in anni importanti della mia attività politica, ho imparato moltissimo».

Eravate anche molto diversi: lui uomo di Chiesa, lei dirigente del Pci.
«Da lui ho imparato l’importanza della fede, nel suo caso religiosa. Ma anche della fede nell’emancipazione dei più deboli, del rinnovamento sociale. E questo ci univa. Quando è arrivato ad Acerra, don Riboldi veniva dal Belice, in Sicilia, dove aveva vissuto importanti esperienze con i terremotati. Era un uomo del profondo Nord, quindi anche di profonda austerità».

Era un’austerità che metteva soggezione?
«Assolutamente no. La sua austerità settentrionale si affiancava a un grande sorriso meridionale, all’altra sua anima con la quale ha convissuto. Gran parte della propria vita don Riboldi l’ha passata al Sud, tra Sicilia e Campania. Aveva una naturale capacità di stabilire rapporti umani, di comunicare a tutto campo, di parlare con gli occhi. In un commento a un mio post su Facebook ho letto una definizione che condivido in pieno: “Era un uomo di fede e di lotta”. È molto bella. Don Riboldi emanava un grande carisma religioso, era un vescovo ma senza paramenti, un prete-vescovo, e aveva una grande capacità di dialogo. Per questo ci prendemmo subito».

Quale fu il vostro primo incontro?
«Alla fine degli anni Settanta. Allora io ero segretario regionale del Pci, eletto giovanissimo. Avevo poco più di trent’anni».

C’è una foto che vi vede marciare insieme, don Riboldi, l’allora segretario generale della Cgil, Luciano Lama, e lei. A che epoca risale?
«È stata scattata alla marcia contro la camorra che si svolse a Ottaviano, il paese di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata. Era il 1982. Quella marcia segnò una svolta nella lotta contro la camorra perché la battaglia diventò di massa».

Erano anni duri nella lotta alla criminalità?
«Certo, anche perché si discuteva ancora se la camorra fosse più pericolosa o meno della mafia. Mentre la camorra allora di rafforzava con il grande salto di qualità con la ricostruzione del post-terremoto».

Si cominciava a capire che era una forma di Antistato?
«Di più. La definizione di Antistato già allora non era più sufficiente a definire la camorra. La camorra non è solo contro lo Stato, non è un male, un tumore, in un corpo sano. Non è solo contro lo Stato, ma pure dentro. È diffusa. Non è un’escrescenza che si elimina con un bisturi. Ha molti tentacoli nella società, nella quale riesce a creare zone grigie. Era questo che si cominciava a capire già in quegli anni. Quindi, se la camorra è anche dentro le istituzioni, la lotta deve essere condotta su diversi fronti. Altrimenti non è efficace. Occorre intervenire sul piano sociale, civile, culturale, politico».

E in questa lotta vi siete trovato al fianco un personaggio dello spessore di don Riboldi.
«La Chiesa non diventava alleata, ma protagonista sociale, oltre il loro ruolo pastorale. Era parte integrante della lotta, assieme al sindacato, con Lama in prima fila, alla politica, con il Pci e la sinistra».

Che ricordi ha di quella giornata ad Ottaviano?
«Entrammo in una Ottaviano nella quale il peso di Cutolo era fortissimo. Le finestre del Comune erano tutte chiuse. Qualche tempo prima c’era stata l’uccisione del consigliere comunale del Pci, Mimmo Beneventano, che aveva combattuto a viso aperto contro i clan. Arrivammo fin sotto il castello che allora era proprietà del boss. Fu una svolta tale che attorno a quell’evento, cominciò a formarsi un vasto movimento di studenti contro la camorra che durò per anni».

Ma non finiva lì.
«Dopo con don Riboldi ci sono state tante altre marce e tanti altri incontri e iniziative sociali. Erano gli anni in cui numerose fabbriche della zona di Pomigliano e Acerra erano in crisi».

Vi vedevate anche oltre gli incontri pubblici?
«Sì. Capitava che dopo gli incontri pubblici ci appartavamo a parlare. Si era una grande intesa tra di noi».

Quando l’ha incontrato l’ultima volta?
«Due anni fa. Sono andato a trovarlo ad Acerra nella Casa dell’Umana Accoglienza, dove aveva una sua stanza. Si era rotto un femore. Non stava bene. Abbiamo passato bellissime ore insieme. Aveva 92 anni, ma rimaneva ancora lucidissimo».

Che lezione si può trarre dall’esperienza di don Riboldi?
«Oggi la camorra si è trasformata. È diventata anche più pericolosa. Sembra senza capi, ma non ha perso la propria forza. È un nemico che abita in mezzo a noi che assolda persino ragazzini di undici-dodici anni. C’è un terribile ringiovanimento della criminalità organizzata. Ricordare quella stagione non deve trasformarsi in un semplice esercizio della memoria. Sarebbe sterile. Bisogna rinnovare la battaglia contro la camorra e richiamare le forze sociali a scendere in campo, aiutando le nuove generazioni. Il futuro si gioca sulla questione giovanile, dobbiamo riuscire a salvare, a riconvertire tanti ragazzi che hanno commesso errori. L’intelligenza della politica sta nel distinguere l’efferato capo camorrista da chi può essere aiutato, tendendogli una mano. Solo così si rende onore a don Riboldi».
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