Caduta anche l’ultima barriera
è il Far West del telemarketing

Caduta anche l’ultima barriera è il Far West del telemarketing
di Francesco Pacifico
Domenica 7 Maggio 2017, 09:57 - Ultimo agg. 21 Marzo, 10:44
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 Ci sono le telefonate mute: la cornetta squilla, ma all’altro capo non c’è nessuno perché il selezionatore automatico è più veloce dello stesso operatore. Il quale, magari, è impegnato in una conversazione con un altro potenziale cliente, incurante che la pratica è vietata. Ci sono poi le chiamate dall’estero: la linea gracchia e l’operatore del call center parla male la nostra lingua e spesso si mostra meno affabile dei suoi colleghi italiani. Ci sono ancora le telefonate che arrivano, cascasse il cielo, all’ora di pranzo, a quella di cena, il sabato mattina perché in quel momento c’è sempre qualcuno in casa. Spesso si tratta di vero e proprio stalkeraggio, nonostante i colossi della telefonia (Tim, Vodafone, Fastweb o Wind, quelli che attraverso questo canale chiudono il 60 per cento dei loro contratti) hanno anche promesso di mettere al bando i call center più veementi.

Una battaglia persa in partenza difendersi dal telemarketing aggressivo. E sarà ancora più difficile dopo la leggina inserita nel Ddl Concorrenza che elimina il requisito del consenso preventivo per le chiamate promozionali. Né migliorerà la situazione la «pezza» che hanno provato a mettere i Cinquestelle con il loro emendamento per migliorare il Codice sulla protezione dei dati personali: è scritto che gli utenti possono impedire ai call center di richiamarli nella stessa giornata, ma nella pratica le aziende si affidano a diversi centralini. I quali non sono in comunicazione tra loro e comunque non si farebbero remore nel contattare sempre gli stessi clienti.

Se non bastasse i pentastellati si sono dimenticati di scrivere nella loro modifica che non si possono disturbare quelli che sono iscritti nel cosiddetto Registro delle opposizioni. È così salta anche l’unica debole barriera, che hanno gli italiani per difendersi. Nell’epoca nella quale Google anticipa i nostri gusti passando al setaccio le ricerche e Amazon conosce le nostre abitudini grazie ai tempi di consegna che scegliamo, il telemarketing sembra uno strumento commerciale abbastanza obsoleto. I potenziali clienti vengono scovati da elenchi (come quelli telefonici) dove non c’è nessuna profilo dell’utenza. I centralinisti, oberati come sono dalle telefonate da fare, non hanno il tempo di informarsi sul prodotto da piazzare.

Siccome in questo mondo vige la quantità e non la qualità, spesso i contratti fatti sono forieri di contenziosi. Senza contare che il telemarketing è nato in America e si è sviluppato anche in Italia per piazzare beni costosi, che superavano il milione di lire ed erano di quanto più voluttuario potevano essere: la pelliccia, la multiproprietà, l’enciclopedia o il materasso con la federa in tessuto buono e le molle in acciaio inox. Non l’abbonamento della telefonia mobile o l’assicurazione low-cost da poche centinaia di euro. Eppure proprio la semplicità del mezzo e la tipologia dei prodotti da piazzare dimostrano meglio dei numeri sia il successo riscosso tra le imprese sia perché il telemarketing possa essere svolto soltanto in maniera aggressiva.

Al limite dello stalkeraggio. Ogni giorno dai call center partono almeno 30 milioni di telefonate. Ma dal 2011 sono state circa 25mila le contestazioni e le denunce. Il giro d’affari di questo comparto dell’industria delle comunicazioni sfiora i 2,2 miliardi di euro annui. Le aziende del settore sono circa 200, ma il grosso del business, il 60 per cento, è in mano a pochi grandi (Almaviva, Comdata, Call & Call, Transcom, Teleperformance, Visiant, Abramo). Il 15 per cento delle attività è stato delocalizzato all’estero, con l’Albania con le sue 25mila posizioni è diventata l’Eldorado per le imprese di questo mondo, superando l’Interesse verso Romania o Croazia.

Soprattutto si dà lavora a circa 80mila addetti, dei quali la metà con contratti a tempo determinato o indeterminato. Proprio l’alta occupazione garantita dal comparto (soprattutto al Sud e a fasce deboli della popolazione come giovani e donna) ha spinto sempre il governo a muoversi con molta circospezione. Già da prima che i colossi del settore chiedessero incentivi e paletti contro la concorrenza sleale di chi opera all’estero o i ribassi negli appalti. Nel 2011, quando fu lanciato il registro per le opposizioni per evitare di essere disturbati sulle linee di casa o sul cellulare, la pubblicità progresso dell’esecutivo recitava: «Uomo registrato un po’ meno informato».

Tanto che Rosario Trefiletti, leader di Federconsumatori, parlò di «vera e propria istigazione a essere molestati dal telemarketing». In quest’ottica va letta anche la modifica inserita nel DdL Concorrenza. Il tutto mentre l’Antitrust ha sempre consigliato al legislatore strategie di tutela opposte. Il garante Antonello Soro, che si è detto «sconcertato» per la fine del consenso preventivo, ha suggerito di allargare il registro delle opposizioni anche ai numeri non presenti in elenco e di invertire l’onore della tutela della privacy, che oggi è in capo all’utente. In Italia è tanto facile finire nelle maglie dei call center ed è quasi impossibile uscirne. Bisognerebbe scrivere a ogni azienda che ci martella, chiedendo di cancellare i nostri dati. In attesa dell’approvazione del testo sulla concorrenza alla Camera - ma Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno promesso correttivi - la legge prevede che si debba dare il proprio consenso per ricevere informazioni commerciali.

Basta però veramente poco per aggirare le norme in materia.
Intanto molte aziende, quando si attiva un servizio o si chiedono preventivi, vincola il tutto alla diffusione e all’elaborazione dei dati personali dell’utente. Il che non esclude, anche se espressamente vietato, la cessione a terzi. Poi ci sono pratiche controverse, più o meno al limite del codice civile: partecipi al concorso o puoi richiedere la fidelity card al supermercato se dai il tuo numero di telefono, ci sono programmini che riescono a rastrellare quanto uno scrive nei form dei siti e che non dovrebbe essere memorizzato. Senza contare che chi opera dall’estero è più refrattario a rispettare le normative italiane.



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