Camorra, la lotta ai Casalesi
passa dalle mamme

di I​saia Sales
Venerdì 3 Febbraio 2017, 08:08 - Ultimo agg. 08:13
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L’arresto di figlie e nuora del boss Bidognetti ci dimostra che le attività dei clan casertani non si sono azzerate con la cattura dei capi. «I Casalesi non sono affatto finiti» ha osservato giustamente il procuratore capo Colangelo. E perciò va a merito degli investigatori il fatto di non aver mai abbassato la guardia. Il boss dal carcere continuava ad esercitare il suo ruolo impartendo disposizioni attraverso le sue figlie e la nuora.

In questo modo erano riprese le attività estorsive sui ristoranti, sui locali notturni, sui negozi di abbigliamento, sulle prostitute bianche e nere, sui venditori di sigarette di contrabbando e sui parcheggiatori abusivi. Ma si continuavano a mantenere inalterate le relazioni politiche sostenendo nel 2014 il candidato che si era opposto al sindaco poi eletto di Castel Volturno, ma soprattutto le relazioni d'affari con gli imprenditori del settore dei rifiuti. Certo la situazione è cambiata, ci sono meno morti e minori azioni violente eclatanti, in molti comuni si respira un clima nuovo, ma i cambiamenti non sono ancora così netti e radicali da segnalare un vero e proprio spartiacque tra un prima e un dopo e indicare con nettezza la fine del predominio dei Casalesi. È palese sia il successo dello Stato e del cosiddetto «modello Caserta» (tutti i capi clan dei Casalesi arrestati negli ultimi anni) sia il limite di questo successo (la riproposizione dal carcere del comando criminale sul territorio).

Se la camorra non ha vinto, ciò non vuol dire che la partita sia stata definitivamente vinta dallo Stato. Ci sarebbero tanti e tanti motivi di discussione su quanto sta avvenendo, se non si riducesse la camorra solo a fatto criminale, ma la si guardasse in tutti i suoi multiformi aspetti. Sta di fatto che tra azione repressiva delle bande di camorra e azione riformatrice del contesto in cui esse operano la distanza è così evidente da diventare un caso da laboratorio: la riproducibilità non è impedita ma solo rallentata dalla repressione. La criminalità camorristica, come quella mafiosa, non finisce sulla base delle azioni della magistratura e degli apparati di sicurezza: le azioni repressive offrono una chance di soluzione, aprono la strada a una soluzione, ma non sono tutta la soluzione.

Quando proviamo a invadere il loro campo, a conquistare permanentemente i loro figli, a riconquistare stabilmente e socialmente i loro luoghi? Se ne è discusso durante la presentazione del libro di Costantino Visconti (La mafia è dappertutto? Falso. Editore Laterza), e su di una sola cosa hanno concordato i pessimisti («la strada per sconfiggere le mafie è ancora lunga») e gli ottimisti ( «i tempi non sono lunghi per la definitiva sconfitta»): non ce la faremo se non si opera con radicale continuità e senza credere che tutto sia riducibile alla sola applicazione delle pene. L'arresto delle tre donne, così come di tante altre nel corso degli ultimi tempi, ci dice anche che l'immagine delle donne totalmente ignare o estranee alle attività criminali dei mariti, dei padri, dei figli o dei fratelli è totalmente falsa. Le donne sono state sempre presenti nelle tre principali organizzazioni mafiose italiane, per quanto il maschilismo esasperato tipico dei criminali lo abbia insistentemente negato o messo in disparte. Non abbiamo notizie di affiliazione ufficiale di donne alle mafie, ma la mancata affiliazione non ha precluso loro un'effettiva partecipazione alle attività delle associazioni mafiose. E ciò che avviene in particolare nelle bande di camorra lo dimostra. Certo, esse non arrivano ai vertici della criminalità per meritocrazia, per capacità nell'uso delle armi o per altre virtù mostrate sul campo: la via di accesso è quasi sempre familiare. Spesso sono mogli, madri, sorelle, cognate, figlie di persone che già rivestono ruoli apicali nei clan. Il matrimonio non li allontana dal loro ambiente sociale, ma lo conferma.

Una volta entrate nella «famiglia» ne diventano protagoniste attive, non silenziose o passive custodi di una cultura di condivisione e di silenzi. Non si limitano solo a fornire un supporto morale e sentimentale alle attività dei parenti. Ma il loro potere diventa ancora più forte quando i loro congiunti finiscono in galera o vengono uccisi. Il venire a mancare di colui che in famiglia garantisce il loro benessere le obbliga a prendere in mano l'organizzazione criminale prima che siano altri a farlo. È vero, però, che tale presenza femminile si è fatta più evidente negli ultimi decenni: il numero di donne arrestate, ammazzate, condannate per vari reati legati alla criminalità camorristica è cresciuto in modo esponenziale.

Ciò a che cosa è dovuto? Forse al fatto semplice che essendo cresciuto il peso delle donne nella società, nella cultura, nell'economia, nelle istituzione, esso è cresciuto di «conseguenza» anche nella criminalità? Secondo alcuni magistrati la maggiore presenza femminile è dovuta, invece, ai vuoti lasciati nelle file dei clan dalla prima applicazione delle misure antimafia (416 bis, legge sui pentiti), norme che portarono ad arresti di massa. Le donne dunque si trovarono davanti le porte spalancate dai vuoti che si erano venuti a formare, e per quelle che avevano legami di sangue con gli arrestati era più semplice prenderne il posto. Essendo, poi, la camorra una organizzazione criminale dove non è ritualizzata e sancita da regole ferree «la successione», è stato meno traumatico accettare il ruolo di guida delle donne.

L'applicazione poi del 41 bis, cioè del carcere duro per gli appartenenti alle mafie, ha fatto il resto. Potendo partecipare ai colloqui in carcere solo i più stretti familiari dei condannati per mafia, le donne si sono trovate ad essere i riferimenti dei boss, a diramare i loro ordini e a difendere i loro interessi economici, e quindi ad assumere un ruolo centrale nel clan. Qualche tempo fa Anna Maria Zaccaria aveva calcolato che il 31% delle donne detenute in Campania è coniuge o convivente con un uomo a sua volta detenuto, il 39% di donne di camorra è moglie o compagna di un boss, mentre il 53,8% è madre di camorristi. La carriera criminale femminile avviene all'interno delle pareti domestiche prima che in strada. Nella camorra le mamme non cercano di salvare i loro figli dalle insidie della strada, ma spesso sono esse stesse a incitarli all'illecito. Sono esse il primo anello della rapida socializzazione all'illegalità, delle vere e proprie «matrone» dell'illegalità. E se non spingiamo le madri a salvare i loro figli, se non le convinciamo che la scuola dà più opportunità della strada, se non riusciamo a farcele alleate nel proporre ai figli una via d'uscita da quel mondo, allora la battaglia sarà lunga e impervia.
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