Camorra e 'ndrangheta, le mani sull'oro nero: ​«Togliamo le licenze all'Eni»

Camorra e 'ndrangheta, le mani sull'oro nero: «Togliamo le licenze all'Eni»
di Giuseppe Crimaldi
Giovedì 8 Aprile 2021, 23:54 - Ultimo agg. 9 Aprile, 18:23
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Premiata società «Petrolmafie». Un patto segreto tra camorra e ‘ndrangheta per accaparrarsi il monopolio della importazione e distribuzione degli idrocarburi. Le mani della criminalità organizzata su benzina, oli minerali e loro derivati: un affare miliardario che - a giudicare dai risultati di un’inchiesta che corre e si interseca lungo l’asse Roma-Napoli-Catanzaro-Reggio Calabria - avrebbe fatto nascere un inedito cartello mafioso capace di coinvolgere famiglie criminali del calibro dei napoletani Moccia e Mazzarella e dei calabresi Mancuso, oltre agli immancabili (quanto insospettabili) colletti bianchi e imprenditori compiacenti. Fulcro comune a tutti i vari filoni d’indagine resta comunque la «Maxpetroli Italia», società romana del defunto imprenditore Sergio Di Cesare rilevata, alla sua morte, dalla moglie Anna Bettozzi.


IL BLITZ
Due anni di indagini condotte dalla Guardia di Finanza di Napoli (con la collaborazione del Ros dei carabinieri) e quattro Procure che si sono interfacciate per districare un complesso mosaico criminale. Ieri mattina sono finite in manette 71 persone con le accuse di associazione mafiosa finalizzata al riciclaggio e alla frode fiscale di prodotti petroliferi. Tra gli arrestati figurano anche l’afragolese Antonio Moccia, il napoletano Francesco Mazzarella, e i calabresi - tutti legati a ‘ndrine locali - Vincenzo Ruggiero, Francesco e Silvana Mancuso, Giovanni e Domenico Camastra. 
Ma nella rete delle fiamme gialle finiscono anche molti insospettabili: a cominciare dall’imprenditore campano Alberto Coppola, cugino della consorte di Moccia, dei commercialisti Claudio Abondandolo e Maria Luisa Di Blasio e - soprattutto - dalla ex cantante romana Anna Betz, al secolo Anna Bettozzi.

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LA GENESI
L’inchiesta nasce a Napoli. È la Direzione distrettuale antimafia partenopea a fiutare, grazie alle indagini dei finanzieri del comando provinciale diretto dal generale Gabriele Failla, le prime tracce che portano a scoprire come i Moccia siano venuti in «soccorso» dell’azienda romana «Maxpetroli», che versa in grosse difficoltà economiche; la camorra intuisce l’affare e - attraverso la fornitura di società «cartiere» che garantiscono false fatturazioni - si infiltra nel settore degli idrocarburi. E così arriva il miracolo: i bilanci traballanti della «Maxpetroli» iniziano a lievitare: grazie alle iniezioni di capitali illeciti da riciclare, passa in soli tre anni da nove a 370 milioni di euro. 
Peccato che alle spalle di questa rinascita imprenditoriale ci fossero gli omessi versamenti di oltre 172 milioni di Iva, più di 12 milioni di accise, 78 mila euro di Ires, per un totale di oltre 186 milioni di euro. Naturalmente anche la camorra ci guadagna: tutto quel denaro sporco incassato dalla «Maxpetroli» va ripulito: e qui i Moccia intervengono nuovamente, reinvestendo i proventi illeciti in attività commerciali, investimenti immobiliari e sponsor. È lungo questo filone investigativo che nelle carte spunta anche il nome dell’attore Gabriel Garko (non indagato e dunque estraneo all’inchiesta),al quale nel marzo 2019 sono stati versati 200 mila euro per una pubblicità della «Maxpetroli».

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I CALABRESI
Sul versante calabrese le Procure di Catanzaro e Reggio lavorano invece ad un altro inquietantissimo filone. Si scopre che le cosche vibonesi si stanno infiltrando nell’economia imprenditoriale legata agli idrocarburi. «Oggi - commenta il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri - le mafie puntano al petrolio, un affare che rende ancora più della droga». Gli investigatori hanno avuto modo di monitorare un incontro, svoltosi in un’osteria di Vibo Valentia, alla quale era stato invitato (accompagnato dall’interprete e da due broker lombardi) un rappresentante della «Kmg», la più grande industria estrattiva di gas e petrolio del Kazakistan. L’obiettivo era creare un attracco per petroliere nel porto di Vibo Marina per scaricare gli idrocarburi nei depositi di un imprenditore locale. Alla tavola era presente anche Luigi Mancuso, boss del clan di Limbadi, che voleva addirittura far ritirare all’Eni le licenze degli enti locali per sfruttare anche i depositi dell’azienda. «Questa inchiesta - ha sottolineato il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo (che ha coordinato il filone partenopeo seguito dall’aggiunto Rosa Volpe e dai pm Fulco, Scarfò e Teresi) - conferma la presenza sistematica e massiccia della criminalità organizzata nei settori più delicati e complessi dell’economia nazionale con una costellazione di imprese mafiose».
 

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