Carceri piene, così la giustizia nega la civiltà

di Francesco Petrelli
Mercoledì 13 Dicembre 2017, 08:32 - Ultimo agg. 10:46
3 Minuti di Lettura
I dati del sovraffollamento carcerario tornano ad essere preoccupanti. Abbiamo superato i 58.000 detenuti con un sovraffollamento che oramai ha raggiunto la percentuale del 115 % (con punte fino al 204 % come Larino in Molise, sebbene picchi di sovraffollamento caratterizzino i territori del nord Italia: Como, Brescia e Bergamo). Le proiezioni indicano tassi di crescita che condurranno presto a livelli di criticità non altrimenti tollerabili. La condizione attuale, oggetto da tempo di denuncie inascoltate, di campagne di sensibilizzazione, di carovane radicali e di manifestazioni degli avvocati penalisti, appare desolante.

Lo stato degli istituti di pena e delle case circondariali del nostro Paese è notoriamente disomogeneo. Come nella sanità, anche per il trattamento carcerario ad alcune realtà d'avanguardia si affiancano (e sono purtroppo la maggioranza, con una ovvia preminenza nel meridione d'Italia) condizioni di oggettiva disumanità, nelle quali i servizi igienici sono a vista, lo spazio fra un letto a castello e il soffitto è di poche decine di centimetri, il sovraffollamento claustrofobico, con spazi vitali limitatissimi, l'osservazione scientifica dei condannati sostanzialmente inesistente, la rieducazione conseguentemente obnubilata. Le condizioni di alcuni Tribunali di sorveglianza (è di questi giorni la denuncia dei penalisti napoletani) al di sotto dei limiti di tollerabilità. E, tuttavia, accanto al dato strutturale che evidentemente è il primo a rendere manifesta la criticità del sistema, vi è una realtà parallela all'interno della quale conviene calare una sonda. È la realtà della politica giudiziaria, della cultura della penalità, di tutto ciò che di fatto ruota attorno al fenomeno del carcere ed a quel sistema carcerocentrico che si è andato costruendo in questi anni anche attraverso una sapiente inoculazione nella collettività dell' equazione più carcere, più sicurezza. Una equazione che finisce con l'assegnare al processo penale le improprie fattezze di macchina produttiva di pene esemplari ed un ruolo palingenetico che certo non gli appartiene. Che induce la magistratura ad utilizzare sempre e comunque la custodia in carcere, schivando ogni riforma in materia, determinando una presenza nelle carceri di detenuti in attesa di giudizio che contribuisce a determinare il collasso del sistema. Difficile non cogliere in tutto questo la contraddizione di un legislatore che, da un lato moltiplica le pene, esclude benefici, limita il ricorso alla giustizia negoziata, allarga il solco del doppio binario, avalla il ricorso alle pene come sfogo del risentimento sociale, per poi dall'altro fingere meraviglia di fronte alle conseguenza di quella politica dissennata. Servirebbe una nuova cultura della libertà personale e della dignità dell'uomo, che non attenda di volta in volta le condanne dell'Europa sulla condizione o la bocciatura dell'Onu della legge sulla tortura, per fingere di adeguarsi a quei richiami, inscenando svuotacarceri e modesti rimedi estemporanei, dimenticando che già nella nostra carta costituzionale sono scritti i principi dell'umanità della pena e della sua finalità non retributiva, della presunzione di innocenza e della inviolabilità della libertà personale, che da soli dovrebbero essere in grado di governare la giustizia penale. Senza l'Onu e senza la Cedu. La riforma dell'esecuzione e della sorveglianza, che doveva essere il fiore all'occhiello della riforma Orlando, e che doveva coronarne il percorso più performante, è rimasta indietro, arranca fra mille dubbi e perplessità, incapace di liberarsi delle pastoie del passato. Mentre intorno le carceri mostrano oramai rassegnate un'immagine indegna di un Paese civile.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA