Giustizia, Piccirillo: «Carceri, ora le riforme per garantire le regole»

Giustizia, Piccirillo: «Carceri, ora le riforme per garantire le regole»
di Leandro Del Gaudio
Domenica 14 Agosto 2022, 08:50
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«Nella mia carriera di magistrato e di uomo delle istituzioni, ricordo la testimonianza di un ex detenuto, un ragazzo che riuscì ad offrire la propria esperienza in una scuola».

Cosa venne fuori da questa esperienza?
«Ci disse semplicemente che a scuola, nella sua breve esperienza di alunno, era considerato un irrecuperabile. Gli dicevano che per lui non c'era speranza, che era un irrecuperabile, appunto. Ecco, quando parliamo di emergenza carceri dovremmo cominciare da qui: gli irrecuperabili non esistono; nessuno è irrecuperabile, il nostro lavoro - Costituzione alla mano - è di considerare tutti i detenuti come persone da recuperare».

Non ha dubbi il magistrato Raffaele Piccirillo, per anni gip del Tribunale di Napoli, oggi capo di gabinetto del ministero della giustizia, anche nel valutare la nuova emergenza che - tra siccità, incubo covid e tensioni quotidiane - si è abbattuta sul mondo penitenziario italiano, con 50 suicidi dall'inizio dell'anno.

Qualche notte fa, carcere di Santa Maria Capua Vetere, un focolaio di rivolta per il caldo e le condizioni di vita: come intervenire?
«Le condizioni di Santa Maria Capua Vetere, così come quelle di Sollicciano, di Bolzano e di altri istituti italiani rappresentano un surplus di afflizione che qualunque visione si abbia della funzione della pena non possono essere tollerate. Il decoro e l'igiene degli spazi di vita e di lavoro di detenuti e operatori è presupposto della dignità, senza la quale nessun processo riabilitativo può funzionare. Il sovraffollamento, pur ridimensionato dalle misure introdotte per fronteggiare l'emergenza Covid, ammonta ancora 116,59% (è cioè presente negli istituti un 16,59% in più dei posti regolamentari). In Campania la media è del 114,24%. L'attenzione della Ministra su questi temi è massima. L'investimento nella riqualificazione degli spazi detentivi ammonta a 36 milioni 400mila euro per la sola regione Campania sugli oltre 100 milioni complessivamente appostati dal Dipartimento; mentre, nell'ambito dei fondi complementari, sono appostati circa 86 milioni per la realizzazione di nuovi padiglioni, uno dei quali nell'istituto di Santa Maria Capua Vetere.

Quando sono previsti gli interventi di riqualificazione?
«Un recentissimo intervento normativo tende a velocizzare le procedure amministrative di assegnazione di questi lavori.

Le nuove costruzioni ricalcheranno i format progettuali elaborati da una Commissione per l'architettura penitenziaria che disegnano un carcere costituzionale, nel quale gli spazi dedicati alle camere di pernottamento siano bilanciati con quelli dedicati alla socialità e al trattamento. L'idea è che il carcere non funziona e i tassi di recidiva aumentano, se il tempo della reclusione è un tempo vuoto dell'attesa, anziché un tempo denso di esperienze vitali».

Dopo l'inchiesta sui presunti pestaggi a carico di agenti di polizia penitenziaria, è possibile prevedere interventi a garanzia di tutti (indagati e detenuti)?
«Non esistono interventi a garanzia dei detenuti che non abbiano ripercussioni positive sulle condizioni di vita e di lavoro degli agenti della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori che, con i detenuti, condividono spazi e tempi della quotidianità. Mettere in competizione i diritti dei detenuti e quelli degli operatori è un'operazione di propaganda irresponsabile, è un gioco a somma zero che alimenta la reciproca ostilità, e tradisce la funzione costituzionale della pena, senza garantire più sicurezza. La Costituzione scommette sulla risocializzazione, che presuppone che gli operatori credano nella possibilità che il detenuto diventi altro rispetto all'immagine cristallizzata nella sentenza di condanna; e che i detenuti per primi credano in questa possibilità».

Eppure, c'è il senso dell'abbandono in cella, con pochi progetti in grado di fare qualcosa di formativo durante la detenzione, non crede?
«Un fattore decisivo di insicurezza è la carenza di attività trattamentali. È sconfortante che, a tutto il dicembre 2020, soltanto il 33,61% dei detenuti fosse impegnato in attività lavorative e che l'attività lavorativa pro capite ammontasse a soli 85 giorni annui. I modelli di regime aperto e sorveglianza dinamica, sicuramente appropriati per coloro che non presentano livelli elevati di pericolosità e che comportano la presenza di detenuti nelle camere di pernottamento per un tempo non superiore alle 8/10 ore giornaliere, non funzionano se, nel resto della giornata, i detenuti ciondolano nei corridoi dei reparti senza essere impegnati in alcuna attività. Comprensibilmente, gli agenti percepiscono questa condizione come pericolosa e chiedono di esercitare la vigilanza da remoto. Ma così è compromesso il contatto umano che è essenziale sia per il funzionamento del percorso riabilitativo, sia per la tempestiva percezione dei segnali di allarme. Nei sistemi penitenziari anglosassoni il regime aperto è concepito come la premessa di una sorveglianza-conoscenza, più efficace, in termini di prevenzione delle violenze, della sorveglianza statica».

Tanti suicidi nel 2022 in cella, come considera l'assistenza sanitaria per i detenuti più fragili sotto il profilo psicologico?
«La scelta di consegnare questa materia alle aziende sanitarie locali, condivisibile per la finalità di assicurare pari livelli assistenziali ai cittadini liberi e detenuti, proietta nel mondo del carcere la disomogenea qualità di questi servizi nelle diverse aree del Paese. L'effetto è quello di caricare su un personale formato per la sorveglianza compiti impropri di gestione dello scompenso psichico, con gli esiti drammatici che le cronache riportano. L'insufficienza del personale e delle strutture deputate al trattamento esterno di questi soggetti costringe i magistrati di sorveglianza a preferire la collocazione nelle Rems (residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) ad altre misure, come la libertà vigilata con prescrizioni sanitarie, che pure, in astratto, sarebbero sufficienti. È perciò necessario che tutte le istituzioni, locali e centrali si facciano carico del carcere, anziché fingere di non vederlo.

Qual è la svolta possibile?
«Vi sono importanti segnali di svolta. Tra questi, cito un'iniziativa comune della ministra Cartabia e del ministro Colao che coinvolge una platea potenziale di 2mila detenuti in attività lavorative altamente professionalizzanti e perciò capaci di favorire il reinserimento nella società al termine dell'esperienza detentiva. Detto questo, non avendo io una visione irenica della società o del carcere, capisco che il conflitto, il disordine possono comunque esplodere. E allora occorrono una formazione adeguata a fronteggiarli, con efficacia e senza abusi, e occorrono investimenti sulle tecnologie - impianti di videosorveglianza fissa e bodycam in grado sia di prevenire gli eventi critici, sia di scoraggiare reazioni sproporzionate. In questi settori sono già stati programmati e parzialmente realizzati interventi per circa 12 milioni di euro che, del resto, corrispondono a una forte richiesta fatta dagli operatori anche in occasione della visita dello scorso anno della ministra Cartabia e del presidente Draghi a Santa Maria Capua Vetere».

Al netto della professionalità di agenti penitenziari e dirigenti, crede che qualcosa sia sfuggita di mano in termini di assistenza e custodia dei detenuti?
«Credo vi sia un problema di copertura degli organici della polizia penitenziaria, dei quali è stato recentemente sbloccato il turn-over (3237 unità saranno assunte nel biennio 2022/2023). Sono in corso diverse procedure concorsuali, come quella che consentirà nel prossimo settembre l'ingresso nell'amministrazione di 57 direttori, dopo 25 anni di stallo».

Secondo stime di massima, un terzo dei detenuti attuali non dovrebbe essere ristretto in cella, come uscire da questo imbuto?
«Importanti interventi sono contenuti nella riforma penale che, pochi giorni fa, ha superato un importante passaggio in Consiglio dei Ministri. Si allarga il ricorso alla messa alla prova che, introdotta nel processo degli adulti nel 2014, ha fatto registrare, a dispetto delle iniziali diffidenze, importanti risultati. In questo momento gli adulti sottoposti a programmi di trattamento prima della decisione di condanna sono oltre 25mila, circa la metà della popolazione detenuta. È un ulteriore passo per garantire rispetto della dignità di chi entra in una casa circondariale».

Non crede che queste misure possano essere percepite dai cittadini come allentamenti sul versante della certezza della pena e della sicurezza?
«Consideri che, per una disposizione del nostro codice di procedura, le persone condannate, con sentenza definitiva, a pene detentive contenute entro i quattro anni, attualmente non vanno in carcere ma attendono che il Tribunale di sorveglianza decida se sussistono le condizioni per ammetterle a misure alternative o se, invece, debbano eseguire la pena in carcere. Qualche volta l'attesa si protrae per mesi o anche per anni. In questo periodo, essi sono completamente liberi e non svolgono alcuna attività trattamentale. Le pare che questo garantisca la sicurezza meglio del sistema immaginato dalla riforma? Consideri anche che la certezza di scontare la pena in determinate forme può incoraggiare, negli imputati, la scelta del patteggiamento, in modo da ridurre il numero dei dibattimenti e garantirne la ragionevole durata, come richiesto dagli impegni del Pnrr. Se ai cittadini racconterete questo, vedrete che anche la percezione cambierà e le rappresentazioni emozionali che inquinano il dibattito pubblico perderanno terreno.

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