Coronavirus Italia, perché tanti morti? È l’eredità del Paese “aperto”

Coronavirus Italia, meno contagiati e troppi morti: è l’eredità del Paese “aperto”
​Coronavirus Italia, meno contagiati e troppi morti: è l’eredità del Paese “aperto”
di Mauro Evangelisti
Domenica 29 Marzo 2020, 09:03 - Ultimo agg. 16:27
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La curva dei nuovi casi positivi lentamente si abbassa, il tasso di crescita è al di sotto del 7 per cento, con la speranza che nel giro di qualche settimana possa avvicinarsi a zero. Allo stesso tempo, il numero dei morti non è mai stato così alto come in questo fine settimana, oscillando sempre tra quota 700 e 900 decessi giornalieri. Cosa non stiamo comprendendo? Soprattutto: possiamo pensare di progettare una graduale riapertura del Paese se ogni giorno il bilancio dei morti è così doloroso? Prima di tutto, va compreso che il dato dei decessi è frutto dell'avanzata del coronavirus delle settimane scorso ed è concentrato in una regione, la Lombardia: «Sono il 59 per cento del totale, con un tasso di letalità al 15 per cento. In questa regione il sistema sanitario ha dovuto sopportare uno tsunami e dunque c'è stato un deficit assistenziale. È altrettanto innegabile che si stanno osservando i primi risultati sui nuovi positivi e sui ricoveri delle misure di contenimento: era necessario aspettare tre settimane dall'inizio della stretta» osserva Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che ogni giorno elabora i numeri di questa epidemia. 
 


Oltre ad addolorarci e a ricordarci che probabilmente in Lombardia è perfino più alto di quello ufficiale (c'è chi è morto senza che venisse eseguito il tampone), il numero delle vittime deve essere sopratutto un monito: non si può pensare di riaprire tutto troppo in fretta. Il dato dei positivi, moderatamente incoraggiante, va maneggiato con molta cautela, perché dipende dai tamponi eseguiti. E ieri l'assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, lo ha detto apertamente: a noi interessa curare le persone a tappeto, non fare i tamponi a tappeto. «L'estensione sul territorio dei test a quelle persone che stanno a domicilio e hanno una serie di sintomi che possono rientrare nella sintomatologia del coronavirus risulta particolarmente problematica; rischia di richiedere un numero ampio di giorni per avere il tampone». In sintesi: vi sono anche persone con i sintomi, che sono assistite, ma a cui non vengono mai fatti i test. Significa che i risultati sul rallentamento dei nuovi casi positivi sono illusori e falsati? No, perché comunque il numero dei tamponi è aumentato, rispetto all'inizio della crisi, ma soprattutto perché c'è un dato più affidabile: i ricoveri per coronavirus. Bene, in questo caso c'è stata una frenata: l'incremento giornaliero giovedì era attorno all'8 per cento, ieri è stato del 2,5 (3,3 per le sole terapie intensive). Le misure di contenimento stanno dando timidi risultati. Ma come e quando possiamo pensare di ridurre il lockdown? Cartabellotta: «Non ha senso pensarci prima di inizio maggio, sarebbe pericolosissimo. Discorso diverso ipotizzare un percorso di uscita, legato a diversi scenari a seconda dei risultati ottenuti». La stessa tesi è stata rilanciata ieri dal virologo Roberto Burioni: «Non possiamo pensare di stare in casa per sempre. Ma la situazione è ancora talmente grave da rendere irrealistico qualunque progetto di riapertura a breve. Bisogna fare tamponi ogni settimana, su un campione della popolazione per vedere l'andamento reale dell'epidemia, ricercare gli anticorpi nella popolazione per capire quante persone hanno effettivamente contratto la malattia».

 
 


Una fotografia realistica e accurata della diffusione del contagio non esiste, non sappiamo quante persone sono positive e asintomatiche, quante lo sono state inconsapevolmente e quindi sono immunizzate. Ma fare più test si scontra, come ha spiegato Gallera, con la mancanza dei materiali, a partire dai reagenti, con il tempo e i laboratori a disposizione. Un parlamentare di +Europa, Riccardo Magi, ha chiesto al premier Conte di ascoltare l'appello di 300 scienziati e ricercatori «per aumentare i test». Uno di questi è il professor Ruggero De Maria, ordinario dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e presidente della rete degli Irccs oncologici. Spiega: «Non si riesce a ridurre in maniera molto consistente la diffusione del contagio semplicemente con il contenimento. Restano tante occasioni in cui le persone sono in contatto. È importante che si aumenti il numero dei test, in maniera mirata, non indiscriminata. Per questo diciamo: ci sono centinaia di laboratori di ricerca ad alto livello in Italia in grado di aiutare. Li mettiamo a disposizione. A Bergamo i medici sono preoccupati perché non si fanno i test neppure ai sintomatici. Non spetta a noi decidere chi deve fare i test, però mettiamo a disposizione le nostre competenze e le nostre strutture. Mancano i reagenti? Molti si possano realizzare. E stiamo cercando anche di approntare dei test senza l'estrazione dell'Rna. Qualsiasi ipotesi di riduzione del lockdown deve passare dal contact tracing e dall'aumento dei test. Anche di quelli sugli anticorpi, per mappare le persone immunizzate».
 

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