Doma, Miami come Napoli: il Sogno Americano dello Chef Marco Giugliano

Doma, Miami come Napoli: il Sogno Americano dello Chef Marco Giugliano
di Luca Marfé
Venerdì 31 Luglio 2020, 23:59
7 Minuti di Lettura

MIAMI - «Napoli siamo noi, ovunque nel mondo. Abbiamo il dovere morale di rappresentarla al meglio. Un dovere che è il più grande degli onori».

Chef, classe 1990, giovane veterano: ha le idee chiarissime e parte subito forte Marco Giugliano.

Il Sogno Americano esiste ancora, lui ci ha creduto sempre, con tutto se stesso, e quel sogno l’ha realizzato per davvero: oggi è un cuoco di fama internazionale, ha collezionato numerosi premi, recensioni sulle guide d’eccellenza italiane (tra cui Cucchiaio d’argento e Gambero Rosso) e pubblicazioni su prestigiosi giornali.



Nato a San Gennaro Vesuviano, un piccolo centro in provincia di Napoli, Marco cresce tra le frizzanti e insidiose stradine di quartiere.
Non senza scossoni.

«Mio padre è morto quando avevo 9 anni ed è stata davvero dura per noi; la mia famiglia ha fatto tanti sacrifici.
Ero il classico ragazzino combinaguai e mia mamma faceva sempre di tutto per togliermi dai casini».

Così, pur di sottrarlo alla strada, a 15 anni gli trova un lavoro in panetteria per far sì che al pomeriggio fosse addirittura troppo stanco per uscire.
Mentre di notte impasta tra farina e lievito, di giorno frequenta la scuola alberghiera.

E già dal primo incontro, con la cucina è subito amore.

«Dopo il diploma, ho iniziato a lavorare in pasticceria con il maestro Pasquale Marigliano, uno dei migliori pasticcieri d'Italia insieme a Iginio Massari; sono stato da lui due anni, volevo avere una formazione completa».



L'obiettivo, però, nella sua testa era già chiaro. E nonostante il suo nuovo mentore volesse trattenerlo in pasticceria, Marco rientra in cucina per iniziare la sua lunga ed appassionata esperienza tra le migliori scene italiane rivestendo un ruolo critico in prestigiosi ristoranti stellati, tra cui Taverna Estia, Ai Sensi e Quattro Passi. Questo solo per citarne alcuni.

A 18 anni conosce lo chef Antonio Mellino e con il tempo diventa il suo braccio destro.

Lavora tra le stelle ottenendo diversi riconoscimenti e lo segue per l'apertura del ristorante Mamma mia, a Londra.
Poi ancora, l’esperienza a Brusciano con un altro chef, Francesco Esposito.
 


Marco lavora complessivamente: otto anni in Italia e due in Inghilterra, lasciando inoltre la sua impronta inconfondibile anche in Grecia, tra Atene e Mykonos.

«Poi il sogno più grande, la partenza per gli States», racconta con la voce che di emozione gli trema ancora.

Un chiodo in testa fisso, da sempre.
Marco fa le valigie e se ne va, a inseguire l’orizzonte a stelle e strisce.

Il suo primo approccio con l'America è il Connecticut, in un piccolo ristorante a Branford.

«Quando sono arrivato ho capito subito che avrei dovuto affrontare una sfida: una cucina vera e propria non esisteva nemmeno, c’era solo un pentolino sul fuoco e il ristorante faceva sì e no 10 coperti a settimana».

Così Marco prende le redini del ristorante Strega e rivoluziona tutto con il suo personale concetto di cucina, fondato sulla valorizzazione del prodotto italiano, sul rispetto e sull’esaltazione garbata della semplicità. Massima attenzione all'olio extravergine d’oliva, alla verdura freschissima, alla pasta artigianale, rigorosamente trafilata in bronzo.




Nei mesi in Connecticut organizza serate con chef stellati come Don Alfonso e Giuseppe di Iorio, partecipa al Festival of Italian Cuisine 2019 dove esibisce i suoi piatti e vince premi importanti, tra cui quello delle Eccellenze Italiane e persino un riconoscimento del sindaco di Branford. Marco e Strega prendono il volo fino ad entrare nella guida italiana per eccellenza, quella del Gambero Rosso, come primo ristorante dello Stato americano. 

Dopo un anno e mezzo, entrambi sono un’istituzione cittadina, ma Marco guarda oltre, ha già la testa altrove.

Prima la leadership, poi il genio dei visionari: l’ennesima svolta, quella vera.

«Un giorno conobbi il proprietario di un ristorante a Miami; mi voleva lì e io, dopo anni di esperienza, volevo curare qualcosa di mio partendo e ripartendo da zero. Ci siamo trovati a disegnare un progetto comune, più o meno dal nulla».

Così, a Novembre dello scorso anno, Marco fa le valigie ancora una volta e arriva a Wynwood, nel folle e meraviglioso quartiere dell’arte e della moda, come chef del ristorante Doma.

Una cucina innovativa e uno staff giovanissimo, a rispecchiare un concetto nuovo, quello di Marco.

«Sapevo che mi sarei trovato dinanzi a una sfida ancora nuova, diversa: Miami non è affatto una città facile.
Qui tutti dicono di fare cucina italiana, ma poi nel menù trovi la lasagna con il pollo, la pasta col guacamole, gli spaghetti con le vongole…e con la panna. E per finire, aiuto, la pasta Alfredo.
Ma la cucina italiana, ringraziando il cielo, è altro. Non c’è ancora quell’attenzione alla qualità, il concetto mondiale di Made in Italy non viene compreso fino in fondo, eppure io dei (pre)giudizi non ho mai avuto paura e ho dunque continuato a credere fermamente in quello che faccio».

Fonda dunque una brigata tutta italiana, puntando sulle caratteristiche dei piatti squisitamente e genuinamente tricolori.
Come tutti gli inizi, però, l’inizio non è facile. 

«Prima regola: facciamo pasta al dente, bella “legata”».

Primi palati da educare.

«Le persone venivano, prenotavano il tavolo vicino alla cucina per sentir parlare dialetto napoletano, ma quando assaggiavano dicevano “hmmm, troppo al dente”. Dopo mesi, oggi prenotano e dicono “voglio andare li perché li si mangia la pasta al dente!”.
Se ad oggi facciamo ancora 50/60 coperti al giorno, nonostante il Coronavirus, è solo perché abbiamo un concetto diverso dagli altri».


Un concetto, e un coraggio, che si palesa platealmente nei suoi piatti.

«Nel menù ho inserito un classico spaghetto alle vongole con sopra un carpaccio di calamari con mousse di porcini e polvere di pane arrostito. E da uomo del Sud non potevo non proporre il classico pacchero al ragù napoletano con pomodoro San Marzano e cottura di dieci (DIECI!) ore».


Grazie alla sua impronta, nella cucina del Doma si respira Made in Italy adesso.

«Chiedo ai fornitori solo il massimo, non mi interessa il prezzo, ma la materia prima.
Nella mia cucina tutto è e deve essere artigianale, i prodotti sono freschissimi e ho anche un mio orticello personale, con tutti gli aromi che utilizzo nei piatti».

E come dice Marco con voce perennemente allegra ed entusiasta, quando si lavora con prodotti di altissima qualità si avranno sempre degli ottimi risultati.
Così è, punto, roba da “amen”.

«Abbiamo avuto un grandissimo risultato».

Tra i vari eventi, Marco ha partecipato al Festival internazionale Barilla’s Italian Bite a Miami Beach nei primi mesi del 2020, dove ha presentato un piatto particolare: una frittata di pasta con spuma di prosciutto.

Non si ferma un attimo e, neanche a dirlo, sta già pensando a progetti nuovi, futuri. 

«Stavo organizzando una serata con Andrea Prea e Heinz Beck, quando è iniziata l’emergenza Coronavirus. Ma nonostante la situazione in Florida non sia semplice, sono fiducioso che presto tutto possa tornare alla normalità. E io di cose in testa ne ho tante!».

Tra le varie idee, uno street food a Miami dedicato alla cucina italiana, con tanto di stand su Miami South Point e un percorso culinario di altissimo livello per spiegare ai locali la vera essenza nostra.

E dopo tutti questi riconoscimenti, alla domanda sulla sua soddisfazione più grande, risponde con sincerità mista a commozione:

«La mia soddisfazione più grande è avere una famiglia unita e una moglie che mi vuole bene.
In cucina, le soddisfazioni arrivano giorno per giorno. Io sono sempre fuori tra ristorante, fiere, manifestazioni.
La mia forza è mia moglie, il mio nucleo, i miei amici che mi hanno dato tanto e che mi danno sempre una grande forza».

«Io so lavorare “soltanto” con il sorriso. Per me non è neanche lavoro, è una passione enorme che mi fa innamorare quotidianamente. Tutto il mio staff ha diritto al giorno libero, io non lo prendo mai, per me è normale. Per me la cucina è rispetto, educazione, sacrifici. In una parola sola? Tutto. Dico sempre ai ragazzi che lavorano con me che è inutile entrare in cucina se non si ha il sorriso perché noi siamo sposati con la cucina, viviamo qui 20 ore al giorno!». 

Nessun sacrificio, insomma.
Ma tanti riconoscimenti.
Tanti sogni, realizzati, che lo hanno portato fino a qui.

«Io sono un napoletano innamorato dell’America. Lo sono stato sin dal “giorno 1”, chissà, forse persino da quello “zero”».

E per concludere, sul se ha intenzione o no di tornare nella sua terra, risponde in una frazione di secondo.

«Solo in vacanza, per tornare a casa.
La mia vita oggi è l’America. Ci ho messo 5 anni per arrivarci e ora non la lascio più».


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(Microfoni spenti)

E Trump?

«Trump?
Io penso che tutti vogliono criticarlo, che sia oramai quasi una moda.
Ma la verità è che ha portato soldi persino in questo momento critico per il Paese».

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(Ha collaborato Roberta Testa.
Tutte le foto e le immagini del video sono di Lorenzo Franco)

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