Greenwashing, cos’è l’ecologismo di facciata

Fa discutere la strategia di comunicazione di certe imprese finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale

È l'epoca del greenwashing
È l'epoca del greenwashing
di Ferdinando Gagliotti
Lunedì 23 Gennaio 2023, 12:00 - Ultimo agg. 15:15
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Il termine greenwashing è stato tra i più cercati nel 2022. Esso è una sincrasi delle parole inglesi green e washing, che richiama il verbo whitewash, come “imbiancare” e dunque “coprire, nascondere”, e indica - stando alla definizione fornita da Wikipedia - la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. Molti si ricorderanno quanto accaduto all’ultima edizione del Festival di Sanremo, con la protesta degli attivisti di Greenpeace nei confronti di Eni. In un momento storico in cui si impone alle imprese di dedicare parte dei propri sforzi al risolvere problematiche di impatto sociale - vedasi responsabilità sociale di impresa - c’è chi, furbescamente, prova a ingannare i consumatori ricorrendo a questo fenomeno.

«Più rilevanti diventano le tematiche dello sviluppo sostenibile - spiega a Il Mattino Filippo Sciacca, esperto di sviluppo sostenibile laico con dodici anni di esperienza nel marketing internazionale strategico e fondatore di Sustenia -, più le aziende sono costrette a correre ai ripari.

Quelle che non sono preparate, perchè non hanno affrontato un percorso serio, sono costrette a ricorrere al greenwashing». 

Quando una asserzione ambientale è ingannevole? «Quando contiene informazioni false, parla di benefici ambientali vaghi (“rispettoso dell’ambiente”, “amico della natura”, “attento ai cambiamentì climatici”) senza dimostrare l’affermazione tecnica che supporta quella dicitura». Secondo Sciacca, il greenwashing va smascherato «partendo dalla testa. Se un’azienda o un brand ha affrontato in maniera seria un percorso di sviluppo sostenibile, lo dichiara. Quindi la prima operazione che suggerisco di fare, nel momento in cui si ha un dubbio su un’azienda, è andare a verificare se nel sito dell’azienda in questione sia presente una sezione sulla sostenibilità, con un piano chiaro sul medio-lungo periodo in cui viene spiegato come si intende abbattere quelli che sono gli impatti».

Ogni settore ha impatti importanti: le aziende che affrontano seriamente questi impatti lo dichiarano. «Esistono aree di business non sostenibili per natura - prosegue l’esperto -, come le sigarette e il petrolio. Altro aspetto importante riguarda il design e la grafica: troverete sempre più spesso sui pack elementi naturali di ogni tipo, che indicano un mondo evocativo naturale che non esiste. Inoltre, è importante prestare attenzione ai sistemi di produzione: verificare che un prodotto non provenga da paesi terzi e poveri rispetto a quelli indicati. C’è anche chi interviene su parti solo marginali del business: un caso eclatante riguarda il colosso americano McDonald’s, che si batte nel riciclo della carta, ma la cui carne proviene da allevamenti intensivi terrificanti». 

Con l’affinarsi delle tecniche di greenwashing, aumentano però anche strumenti in risposta al fenomeno. Un esempio è Good on You, fashion checker internazionale che verifica le condizioni di giusto lavoro della filiera delle fabbriche tessili, soprattutto dei paesi più poveri. O ancora, il sistema di denuncia proposto dalla onlus Save the Planet, che si prende carico delle segnalazioni di greenwashing e, con una squadra di tecnici, ne verifica la veridicità per poi procedere con una class action. Questa rappresenta una delle armi più potenti, perchè le associazioni di consumatori e le onlus hanno una potenza, in termini di comunicazione, che fa paura alle aziende. 

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Grandi aziende, come Eni, Acqua minerale San Benedetto e Ferrarelle, sono già state condannate, ma per casi di pubblicità ingannevole. La prima condanna per greenwashing vera e propria, in Italia, è arrivata lo scorso anno ai danni di Miko, un’azienda che opera nel campo degli elementi tessili per automobili, multata per 5 milioni di euro. A livello internazionale, i casi di greenwashing non si contano: Coca Cola, ad esempio, porta avanti una campagna dal titolo “Un mondo senza rifiuti”, ma produce più bottigline di plastica e lattine di chiunque altro.

Quali autorità vigilano su questo fenomeno? «In Italia - riprende Sciacca - c’è l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, assieme all’istituto dell’autodiscipina pubblicitaria. Esistono anche sistemi di certificazione importanti, le certificazioni Iso di tipo uno, due e tre e l’Emas, per la comunicazione nell’ambito di certificazioni di imprese». Come difendersi, quindi, dal greenwashing? «Boicottare un’azienda che non ha un piano di sostenibilità è fondamentale, perchè la obbligherà a intervenire. Ai consumatori chiedo: siate critici, perchè lo sviluppo sostenibile non riguarda noi, ma le nostre generazioni».

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