La procura di Torino ha condannato un imam a due anni e tre mesi con l'accusa di maltrattamenti. L'uomo non permetteva alla moglie di vestirsi con abiti occidentali, né di decidere cosa guardare in tv. Costretta a mangiare in una stanza separata dagli uomini, la donna doveva solamente solo occuparsi della casa, del marito e dei due figli. In caso di ribellione veniva insulta o, peggio, picchiata. Nessuna autonomia, trattata come una serva senza alcuna possibilità di decidere del proprio corpo e della propria libertà. E ciò, naturalmente, travalicava il mero aspetto culturale. Secondo i pm, infatti, i comportamenti dell'iman andavano ben oltre la cultura araba e si configurandosi come reati penali.
Tornata per un breve periodo a vivere in Marocco, nel 2015, aveva tentato anche una fuga in Spagna, ma era poi stata costretta a tornare in Italia.
L'unico referto medico, secondo la difesa, riguardava un dito gonfio, perché durante una lite il marito avrebbe chiuso un armadio pizzicandole la mano. «Una cosa sono i maltrattamenti, un'altra gli aspetti culturali. Anche mangiare in disparte, gli uomini separati dalle donne, non possono essere considerate condotte illecite», sostiene l'avvocato Schettini annunciando il ricorso, ma l'accusa non ha dubbi. Anche per quanto riguarda i testimoni: «Si tratta di uomini, in particolare di mariti, che hanno mostrato lo stesso imprinting culturale - aveva sostenuto la pm Badellino nella sua requisitoria -: le loro dichiarazioni sono poco attendibili».
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