L'Italia in fiamme dappertutto: i roghi non sono solo dolosi

L'Italia in fiamme dappertutto: i roghi non sono solo dolosi
di Rita Annunziata
Venerdì 11 Settembre 2020, 17:48 - Ultimo agg. 18:14
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Dalla Campania alla Puglia, passando per Emilia Romagna, Sicilia, Sardegna, Lazio, Calabria, Umbria e Basilicata. L’Italia brucia e le fiamme arrivano a lambire anche le città in un anno che si posiziona al quarto posto tra i più bollenti dal 1800. Secondo un’elaborazione di Coldiretti sui dati del Dipartimento della Protezione civile, solo tra il 15 giugno e il 25 agosto hanno toccato l’intera penisola ben 500 incendi di cui il 60% di origine dolosa. Una percentuale che ben si sposa con i dati relativi agli ultimi anni se si considera che dal 2000 al 2017 sono stati interessati dai roghi 8,5 milioni di ettari, circa tre volte e mezzo la Sardegna, e solo in Campania gli incendi volontari ammontavano al 76% del totale nazionale.

Ma per gli esperti la propagazione delle fiamme sarebbe incentivata anche dalle alte temperature, che tendono a mantenersi stabili al di sopra di oltre un grado rispetto alla media storica creando le condizioni per l’esplosione di incendi devastanti nelle aree maggiormente colpite dalla siccità. Se in generale, infatti, le principali responsabilità vengono attribuite alla chiusura delle aziende agricole, all’abbandono delle aree di pascolo e alla conseguente assenza di gestione del territorio in un Paese in cui oltre un terzo della superficie è coperta da boschi, la vera sfida dei nostri tempi potrebbe risiedere proprio nella crisi climatica.

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Il rapporto Un paese che brucia. Cambiamenti climatici e incendi boschivi in Italia di Greenpeace Italia e della Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale (Sisef) ha rivelato infatti un legame a doppio filo tra i cambiamenti climatici e le foreste: se queste ultime “trattengono e assorbono carbonio, svolgendo un ruolo determinante nel mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici”, si legge nello studio, dall’altro lato “la crescita delle temperature medie annuali, l’alterazione delle precipitazioni e il verificarsi di eventi metereologici estremi mettono a rischio funzionalità e salute delle foreste diminuendone la capacità di fornire servizi ecosistemici ed esponendole ulteriormente a tempeste, siccità e incendi sempre più frequenti”.

Secondo quanto riportato da Martina Borghi della Campagna foreste di Greenpeace Italia, infatti, dal 1980 gli incendi boschivi hanno mandato in fumo 107mila ettari all’anno. A contribuire sono state tempeste di vento e siccità, ma anche la contrazione delle precipitazioni che – aggiunge Coldiretti sulla base dei dati Isac Cnr – solo nei primi sette mesi del 2020 si sono ridotte del 30%. E in futuro il rischio incendi potrebbe conoscere un ulteriore aggravamento. Ma cosa possono fare i responsabili politici per scongiurare quella che viene definita una “catastrofe climatica”?
 


«Dobbiamo rafforzare la resistenza e resilienza degli ecosistemi forestali attraverso una migliore gestione del territorio e pratiche come la selvicoltura preventiva, soprattutto nelle zone dove abitazioni e aree naturali sono attigue, ed è altrettanto importante migliorare gli strumenti di raccolta dati, analisi e reportistica sugli incendi, al momento insufficienti», spiega Luca Tonnarelli, membro di Sisef e direttore tecnico del Centro di addestramento antincendi boschivi della Regione Toscana. Ma la soluzione potrebbe venire anche dalla tavola. Secondo l’analisi Enhancing nationally determined contributions for food systems realizzata da WWF, Unep, Eat e Climate Focus, i sistemi alimentari producono fino al 37% di tutte le emissioni di gas serra, dalla produzione alla lavorazione, dalla distribuzione al consumo di cibo. Un approccio condiviso anche dal segretario generale dell’Onu, António Guterres, che in occasione del lancio del vertice dei sistemi alimentari dell’Onu atteso per il 2021 ha sottolineato come la trasformazione dei sistemi alimentari sia cruciale per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
Nell’ottica del conseguimento di quanto stabilito dall’Accordo di Parigi, spiegano i ricercatori, i paesi potrebbero intervenire dunque con un approccio “dal campo alla tavola”.

Basti pensare che solo la riduzione delle perdite e degli sprechi di cibo potrebbe garantire una contrazione delle emissioni di Co2 di 4,5 gigatoni all’anno, ma solo 11 paesi oggi prevedono nei propri piani nazionali il food loss (le perdite di cibo) mentre nessuno ancora considera i food waste (gli sprechi). Inoltre, continuano gli studiosi, migliorando i metodi di produzione e contraendo le emissioni di metano legate agli allevamenti di bestiame si potrebbe raggiungere una riduzione delle emissioni di Co2 di 1,44 gigatoni annui. Una cifra che crescerebbe di ben cinque volte se, invece, si consumassero più alimenti di origine vegetale.

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