Concorsi, il rettore della Federico II di Napoli: «Libertà di scelta ai prof, sanzioni a chi sbaglia»

Concorsi, il rettore della Federico II di Napoli: «Libertà di scelta ai prof, sanzioni a chi sbaglia»
di Nando Santonastaso
Giovedì 28 Settembre 2017, 09:16
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Gaetano Manfredi, rettore della Federico II di Napoli e presidente della Crui: che idea si è fatto dell’inchiesta che a Firenze ha portato alla ribalta presunti casi di corruzione nel sistema universitario italiano? Quanto sta venendo alla ribalta era in qualche modo prevedibile?
«Io vorrei partire da due sensazioni personali. La prima la faccio da ricercatore e da docente universitario e si riferisce alla grande amarezza mia e di tanti colleghi che hanno dedicato un’intera vita, spesso con enormi sacrifici per la loro carriera universitaria e si vedono accomunati in maniera semplicistica ad episodi deprecabili. È un sentimento che, come ho constatato personalmente dalle tante testimonianze ricevute in questi giorni, rappresenta la stragrande maggioranza del sistema universitario. La seconda riflessione la faccio da presidente della Crui, la Conferenza dei rettori: questi problemi non si risolvono diminuendo l’autonomia universitaria, ma rafforzandola e aumentando i meccanismi di verifica, di controllo e di sanzioni. Altrimenti così si distrugge l’università italiana in un mondo in cui le università sono più libere della nostra».

Entriamo nel merito dell’inchiesta: l’invito a rinunciare a partecipare a un concorso è sicuramente un abuso, ma lei se la sente di sostenere che è una pratica marginale?
«Io credo che dire a qualcuno di non partecipare a un concorso è un atto gravissimo dal punto di vista etico e anche perché limita la possibilità dell’Università di scegliere il profilo migliore. È nell’interesse di ogni ateneo avere il docente più bravo perché garantisce un alto livello di qualità didattica per gli studenti e migliora l’immagine e la credibilità dell’istituzione stessa. Il problema è impedire che l’interesse del singolo prevalga su quello collettivo».

Ma a lei non è mai capitato di ricevere una richiesta in tal senso?
«A me non è mai capitato ma che questo possa avvenire non si può negare ed è, ripeto, un fatto gravissimo. La difesa della possibilità di scelta è un presupposto fondamentale anche a livello locale per il sistema universitario perché non può frenare i processi abilitativi. Chi infrange questa regola commette un errore enorme, che va sanzionato senza incertezze».

Ma non crede che la scelta di una cattedra, di un primariato abbia anche una valenza in senso lato politica, nel senso che si ha la sensazione che debba comunque rispondere a requisiti per così dire politici per essere ritenuta idonea all’obiettivo prefissato?
«Io credo che sia innegabile ribadire che comunque una scelta viene fatta e che, più che su criteri come dice lei politici, debba continuare a basarsi su un principio di qualità e sull’interesse specifico dell’ateneo nella ricerca del profilo migliore».

Proprio per rispondere alle critiche su questo clima di familismo si è proceduralizzata la selezione. I baroni cooptavano i figli. Si è pensato venti anni fa ad un meccanismo di valutazione orizzontale, oggettivo, ma oggi anche questo risulta infiltrato da nepotismo e familismi togliendo autonomia al magistero, ma non ottenendo il risultato sperato. È d’accordo?
«La procedura da sola non basta. Bisogna dire però che le nuove procedure concorsuali e soprattutto la maggiore pubblicità che si dà ai curricula, nonché il meccanismo delle mediane, criticato quanto si vuole ma in grado di fotografare l’attività svolta dalle persone, rende più oggettiva la valutazione e ha migliorato molto la situazione. Ma alla fine c’è sempre una persona che sceglie e se non c’è un meccanismo premiale si rischia di non riconoscere i più bravi».

Ma l’abilitazione scientifica a livello nazionale che viene monopolizzata pattiziamente tra le Scuole funziona?
«In moltissimi settori l’abilitazione funziona perché rappresenta una verifica a livello nazionale della produzione scientifica dei candidati nei settori bibliometrici e quindi è difficile che un candidato bravo riconosciuto dalla comunità internazionale non risulti alla fine vincitore. Ma nei settori non bibliometrici dove il peso delle Scuole è più forte, se questo strumento è utilizzato in maniera impropria trasforma la competizione non più sulla qualità ma sull’appartenenza privilegiando appunto l’appartenenza più che la qualità».

Questo problema si pone per le discipline umanistiche e in generale per la didattica più che per la ricerca.
«È anche un fatto di tradizioni. Laddove la ricerca è meno internazionale ci sono difficoltà ad avere criteri di valutazione oggettiva».

Ma se io sono il caposcuola di Filosofia di Napoli, non ho il dovere politico di difendere comunque la mia Scuola?
«Sì, ma a parità di merito, perché se c’è parità di merito la cosa diventa fattore ed è persino fisiologico».

Ma come si fa a misurare il merito nelle discipline umanistiche? Facciamo un esempio: io studio Severino, il più grande filosofo italiano vivente, ma anche il meno tradotto all’estero, e vengo dalla prestigiosa scuola di Napoli, e mi devo misurare con un ragazzetto di Montebelluna che ha studiato Locke, la cui rilevanza internazionale è maggiore: se non mi difende il mio caposcuola sono destinato a soccombere.
«Non esiste un sistema completamente oggettivo, bisogna ammetterlo. Quando c’è una valutazione corretta e terza il merito della persona viene fuori. Del resto quello che viene fuori dall’inchiesta aperta a Firenze è la patologia del sistema, non la norma. Non c’è nessuna migliore valutazione dei nostri professori ricercatori se non come vengono considerati all’estero. Non a caso l’Italia è al settimo posto nel mondo per la qualità della produzione scientifica. C’è la necessità di tenere molto alta l’asticella della qualità, l’appartenenza ad una Scuola non deve superare il valore del merito».

Ma usato solo nelle eccellenze, poi nelle singole università lo scenario è diverso.
«Esistono realtà universitarie diversissime tra di loro, dalla fisica teorica alla filologia classica, storie di tradizioni che hanno il loro peso e che hanno certamente un significato. Appartenere ad una Scuola importante è un vantaggio ma nelle opportunità, per portare avanti una ricerca più competitiva a livello internazionale, per esempio. Non può esserci una logica muscolare, come quella che emerge dalle intercettazioni dell’inchiesta di Firenze: appartenere ad una scuola forte non vuol dire che si debba vincere automaticamente».

Eppure le denunce di presunti torti o casi di altrettanto presunta corruzione continuano ad essere segnalati all’Anac, come rivelato dallo stesso Raffaele Cantone.
«Anche a me arrivano spesso proteste da parte di studenti che si lamentano per presunti torti subiti. Ma il vero problema è che esistono poche opportunità rispetto al gran numero di pretendenti: spesso chi perde è bravo almeno come chi vince. E allora le legittime aspettative sono negate dai fatti».

Cantone propone di inserire un membro esterno nelle commissioni di valutazione: a lei piace questa idea?
«No, temo che così si finisca per complicare ulteriormente le procedure. Prima c’era un membro straniero e i problemi sono emersi comunque. È più importante rafforzare un sistema che preveda valutazioni ex post su chi ha vinto».

Torniamo sul tema della politicizzazione delle scelte: in fondo fra le nomine dei magistrati e quelle dei docenti universitari il nodo dell’offerta politica in senso lato, è comune. Lo dimostra il fatto che quando si è trattato di scegliere il nuovo procuratore della Repubblica di Napoli sono state le correnti del Csm a determinare un orientamento...
«Non posso giudicare, ovviamente, le scelte della magistratura. Ma nel caso della Procura di Napoli, la scelta era comunque tra due personalità di alto livello. Il problema si sarebbe posto se in lizza c’erano due magistrati di livelli differenti e alla fine fosse stato scelto il peggiore tra i due. Nell’inchiesta di Firenze non c’era un limite di posti per le abilitazioni, la contesa era su una dimostrazione di forza più che sulla qualità dei singoli. È l’aspetto patologico di cui si parlava prima. Ma se guardo al mio settore un fatto del genere non si è mai verificato».

Ma da presidente della Crui e da rettore è possibile che non conosca dei sistemi per agevolare in qualche modo la scelta dei migliori? È libero di chiamare i più bravi o si è tentati di cucire attorno a quelli che partecipano un profilo idoneo a farlo vince con norme ad hoc?
«È il nodo del reclutamento, io devo sempre cercare il migliore e le leggi esistenti sono fatte per andare in questa direzione, per aiutare cioè i sistemi virtuosi. Quindi può diventare difficile spingere per far arrivare in Ateneo i migliori. Ecco perché all’estero è tutto più semplice: chiamare il ricercatore più bravo è assolutamente normale».

Quindi c’è più discrezionalità soggettiva, l’autonomia della scelta è decisamente assoluta?
«Sì, anche perché all’estero entrano in gioco altri criteri, altrettanto importanti, come la bravura, ad esempio del prescelto di procurare maggiori risorse per l’ateneo e i suoi studi. Da noi, invece, bisogna avere solo parametri scientifici per la valutazione. Ma di sicura il sistema non può funzionare senza un severo controllo ex post: si rischierebbe, come minimo, l’arbitrarietà delle scelte. In Italia, l’effetto potrebbe essere quello di burocratizzare la scelta finendo per penalizzare i virtuosi».

La deriva giustizialista della giustizia di sicuro non serve a combattere la corruzione. È d’accordo?
«Sì, la deresponsabilizzazione del sistema è sicuramente il male peggiore».

Nell’intervista dell’altro giorno al Mattino, un ricercatore di fama internazionale come Luigi Nicolais ha ricordato di essere finito nel registro degli indagati per avere fatto una segnalazione di un profilo scientifico di alta qualità. All’estero, ha detto, lo avrebbero ringraziato.
«Io ho tanti allievi all’estero, e ho scritto tante lettere di segnalazione...».

All’estero, appunto.
«In Italia c’è un concorso pubblico, da noi e per chi vuole entrare alle Poste si seguono le stesse regole. In fondo è un sistema che se usato bene, è sicuramente meritocratico».

Forse per le Poste, ma così il reclutamento nelle università non funziona.
«Dobbiamo liberalizzare questo percorso, non burocratizzarlo. Quindi, insisto, servono più verifiche e sanzioni immediate».

Ma tutto questo non contribuisce, in realtà, ad alimentare la fuga dei cervelli?
«Ci sono due fattori da considerare. Il primo è la mancanza di opportunità. Se ci fossero ampie possibilità di selezione aumenterebbero le possibilità di far entrare tutti i migliori partecipanti ad un concorso. Però se non c’è un ambiente meritocratico non fai strada comunque. E non c’entra la provenienza da famiglie già inserite nel contesto accademico: io stesso, che non provengo da una famiglia in cui c’erano altri docenti universitari, non avrei potuto fare questo mestiere. E invece ero talmente disincantato che quando il professore, appena laureato, mi disse che dovevo andare da lui, io pensai che era solo per un saluto, non perché voleva farmi lavorare con lui, come invece accadde. La verità è che la narrazione del merito nasconde i tanti limiti di un sistema che non funziona».

E cosa pensa allora del possibile conflitto di interessi padre-figlio, marito-moglie e così via che nell’ambito universitario viene spesso sospettato per i legami familiari di docenti e ricercatori?
«C’è il caso del figlio d’arte che dispone inevitabilmente di maggiori opportunità perché frequenta di più un ambiente specifico e poi c’è il caso di familismi quando si registra un’azione politica particolare, per usare la sua stessa espressione, nel ruolo accademico. Ma ci sono tanti mariti e mogli che lavorano nello stesso dipartimento e non hanno mai dato vita ad alcun tipo di competizione. Quindi non si può proceduralizzare anche questo tema».

Ma esistono autotutele anche nel modo universitario?
«Da noi vengono verificati tutti gli atti, io in particolare faccio controllare ogni documento con estrema meticolosità. A volte si arriva anche a non approvare gli atti, una decisione estrema perché alla fine penalizza anche il vincitore che magari è estraneo ad ogni eventuale irregolarità».

Ha parlato dell’inchiesta di Firenze con il ministro Fedeli?
«Sì, ci siamo parlati e ho apprezzato la sua visione di considerare sano il corpo generale dell’Accademia. Ma questo è il momento giusto per fare un’autocritica, voglio dirlo a chiare lettere. La comunità accademica non è ancora interamente convinta dei suoi meccanismi autoregolatori. I margini di intervento non sono alti ma bisogna farlo: il sistema universitario deve essere più capace di difendersi perché se non lo facciamo noi si rischia di andare alla distruzione dell’autonomia universitaria».

Ma perché la valutazione dei professori non deve essere fatta anche dagli studenti? Se ne era parlato un tempo, poi è caduto il silenzio.
«Nelle attività di ricerca non è ovviamente possibile. Ma nella didattica questa valutazione può e deve avvenire. Bisogna rafforzarla, anche perché spesso una didattica carente e il simbolo di una ricerca non condivisibile».

Non è vero forse che i docenti universitari sono i primi a rifiutare persino l’idea di essere valutati?
«È possibile ma io credo che bisogna fare un salto di qualità. Anche il parametro della didattica dovrebbe far parte di quelli che presiedono all’assegnazione dei fondi per le attività di ricerca».

Sono nati molti dubbi anche in queste ore sulla necessità dei test di ammissione e, dall’altra parte, sui limiti del libero accesso. Lei da che parte sta?
«Tutti sanno che io sono favorevole ai test. Medicina è sicuramente un caso a parte perché i 70-80mila che vi partecipano rappresentano un’assoluta anomalia. È proprio perché c’è il numero chiuso che si riesce a garantire il posto di lavoro. Ma il vero ragionamento da fare a proposito del numero programmato è un altro: tutti dovrebbero avere strutture adeguate dopo essere stati ammessi, e la cosa purtroppo non avviene sempre».

Nel 1981 non c’erano però tante strutture, i policlinici erano aperti anche di pomeriggio e gli studenti frequentavano le lezioni in aule sovraffollate. Poi, negli anni successivi, i laureati non raggiungevano neanche il 30 per cento degli iscritti, mentre oggi sfiorano il 98 per cento: se tutti diventano medici quale qualità possono garantire?
«Mia moglie ha fatto tredici anni di precariato, ha fatto sacrifici per studiare ed ha raggiunto il suo obiettivo: oggi la formazione dei medici è di gran lunga migliore, ci sono laboratori e strutture all’avanguardia, ci sono molti più mezzi di allora. Quando ho incontrato, di recente, in Inghilterra i rettori di importanti atenei come Oxford e Cambridge si sono meravigliati dei tanti ragazzi che non raggiungono la laurea. Loro hanno la selezione insita nel sistema, non ci possono essere raccomandazioni, mettono il sistema in asse con il merito. È quello che dovremmo fare anche da noi. Io ho proposto di trasformare il quinto anno delle scuole superiori in un anno di orientamento all’iscrizione all’università. Gli studenti capirebbero subito se ciò che pensano degli studi accademici è nelle loro possibilità o se invece devono cambiare strada in tempo. Osservo anche che ci sono persone che dopo avere avuto giudizi di conformità non ottimali non hanno cambiato settori dell’amministrazione presso cui erano impiegate e sono andate in pensione senza avere fatto un’altra scelta».

Chiudiamo sullo sciopero: teme ulteriori iniziative, con ripercussioni sulla regolarità dell’attuale anno accademico dopo le proteste dei giorni scorsi?
«Io credo che per difendere l’autonomia universitaria bisogna stabilire regole chiare anche quando si proclamano gli scioperi, nell’interesse primario degli studenti. Oggi un codice fatto dagli universitari non c’è, e il rischio che anche certe iniziative finiscano per compromettere l’autonomia accademica cresce ancora di più».
 
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