Terroristi ragazzini in nome di Allah
uccidono perché odiano la loro storia

Terroristi ragazzini in nome di Allah uccidono perché odiano la loro storia
di Massimo Adinolfi
Lunedì 21 Agosto 2017, 08:30 - Ultimo agg. 10:08
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Tristi. Isolati. Vili. Sono così i terroristi? Così li ha dipinti, con convinzione, Kevin Spacey, l’attore americano ieri a Roma per presentare il suo ultimo film. Ma davvero erano così i fratelli Kouachi – 33 e 32 anni – e il loro amico Amedy Coulibaly, anni 32, responsabili i primi dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, l’ultimo della strage al supermercato kosher di Parigi, nel gennaio 2015? E i giovani della strage del Bataclan, sempre a Parigi? E Mohamed Lahouaiej Bouhlel: che uomo era Bouhlel, che vita conduceva colui che, sulla promenade di Nizza, ha lanciato il camion sulla folla che festeggiava il 14 luglio? 
 



Ed erano così anche gli attentatori di Londra, di Bruxelles o di Madrid? Così erano Moussa Oubakier, 17 anni, Mohamed Hychami, 24 anni, Said Aallaa, di anni 18, e gli altri membri della cellula terroristica che ha seminato il terrore sulle ramblas di Barcellona?

È impossibile tracciare un unico profilo psicologico, così come è impossibile desumere dalle loro abitudini di vita una qualche relazione con la scelta terroristica. Usano i social network, frequentano il quartiere e la moschea, a volte continuano a vivere in famiglia, le loro esistenze non sono molto diverse da quelle dei loro coetanei. Non sono più isolati dei loro compagni; probabilmente non sono nemmeno più tristi di loro: abbiamo anzi foto che li ritraggono sorridenti con un'arma da fuoco tra le mani. Quanto alla viltà, chi può dirlo? Forse, accusandone la viltà, proviamo anzitutto a fare coraggio a noi stessi.

Però odiano con tutte le loro forze l'Occidente, l'Europa, il Paese in cui vivono. Di che natura è questo odio? Il sociologo francese Dominique Moïsi ha tracciato dopo l'11 settembre un quadro delle relazioni internazionali dominato dalle emozioni: dalla paura in Occidente, dalla speranza nei paesi asiatici emergenti, dall'umiliazione nella galassia musulmana. Questi giovani odiano perché vivono come un'umiliazione la loro storia passata e la loro presente condizione. Non basta la povertà o l'emarginazione: non tutti vivono in situazioni di disagio economico e sociale, e d'altra parte molti, la più gran parte che versa in simili condizioni, rimangono lontanissimi da scelte violente. Ma tutti sono convinti che l'Islam debba sollevarsi contro il Satana occidentale, contro i cristiani, contro i sionisti. E tutti accusano la sudditanza dei governi islamici verso gli Stati Uniti e i loro alleati.
Tutti inneggiano al jihad e tutti gridano vendetta. E, certo, nessuna radicalizzazione è possibile senza che si accetti questa potente costruzione ideologica, spinta fino al parossismo dell'odio politico e religioso.
Ma di nuovo: perché questa narrazione riesce a far presa? Robert Musil diceva che l'anima è come il tarlo che scava nel legno: «Può contorcersi come vuole, perfino tornare indietro, ma si lascia sempre alle spalle uno spazio vuoto».

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