Moby Prince, 30 anni non bastano la verità resta nella nebbia

Moby Prince, 30 anni non bastano la verità resta nella nebbia
di Gigi Di Fiore
Venerdì 9 Aprile 2021, 07:39 - Ultimo agg. 10 Aprile, 12:33
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Due processi e una commissione d'inchiesta parlamentare non sono bastati a capire cosa avvenne quella sera del 10 aprile 1991. Trent'anni dopo, i familiari delle 140 vittime che erano a bordo del traghetto «Moby Prince» salpato da poco da Livorno e diretto a Olbia cercano ancora una verità. Tra insabbiamenti, omissioni, contraddizioni, piste giornalistiche tutto è avvolto in una nebbia che, invece, non ci fu quella sera. Ma gli scenari e i misteri restano inquietanti, ricordati anche nell'approfondito saggio-inchiesta «Una strana nebbia» pubblicato di recente dal giornalista Federico Zatti per Mondadori.


Le conclusioni di comodo delle prima indagini ricostruirono l'impatto della «Moby Prince» con la petroliera «Agip Abruzzo», ancorata in rada a Livorno, al comandante Ugo Chessa che non vide l'ostacolo per la nebbia. Testimoni, intercettazioni radio, ma anche un filmato amatoriale hanno ormai con certezza chiarito che quella sera la visibilità era buona. Chessa? Un comandante esperto, che amava il mare e il suo lavoro che mai avrebbe potuto compiere manovre azzardate, ricostruiscono testi e documenti. Ma la verità giudiziaria trovò un capro espiatorio, per giunta morto con gli altri membri dell'equipaggio e i passeggeri. Uno solo fu il superstite, il mozzo Alessio Bertrand di Ercolano. Ma i suoi racconti sono nei verbali confusi e contraddittori. Fu salvato in mare da una barca di ormeggiatori.


Le autopsie stabilirono che le vittime potevano essere salvate se i soccorsi fossero arrivati con rapidità. Erano in gran parte raccolti con ordine nel salone De Luxe di 34 metri per 22, con porte tagliafuoco. Avevano i salvagenti e qualcuno anche oggetti personali portati dalle cabine. Erano stati riuniti in buon ordine dall'equipaggio, in attesa di soccorsi che arrivarono quando erano ormai morti asfissiati dal fumo, o arsi dal fuoco. L'impatto della «Moby Prince» sulla petroliera sprigionò il greggio che trasportava nel serbatoio sette. Poi ci fu un'esplosione, il fuoco, il fumo. Le morti. Le conclusioni della commissione parlamentare, che ha lavorato dal 2015 al 2018, hanno ricostruito una totale assenza di coordinamento nei soccorsi e molte lacune nella capitaneria di porto di Livorno. Il «mayday», lanciato in tempo dal comandante Chessa, non venne raccolto. Fu invece ascoltato subito l'Sos del comandante della petroliera Renato Superina, che parlò di speronamento da una bettolina, imbarcazione più piccola di un traghetto di linea.


Inquietante la folla di imbarcazioni non dichiarate che quella sera erano intorno al porto di Livorno. C'erano navi militari americane, di ritorno dalla missione in Iraq, con armi da scaricare. C'era una misteriosa imbarcazione somala, su cui tre anni dopo Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 morta per un agguato in Somalia con il suo operatore, avrebbe segnalato immagini e servizi per traffici di armi e rifiuti di cui era veicolo. E poi la «Agip Abruzzo», che si era spostata dalla sua area di ancoraggio per problemi di fondali. Si trovava dove, per motivi di sicurezza, non poteva essere. Ma la visibilità non avrebbe comunque impedito all'esperto comandante della «Moby Prince» di evitarla.

Già i periti parlarono di tracce di esplosivo nella prua a ridosso delle eliche sotto il garage per le auto. Esplosivo però privo di detonatore e timer. In commissione, Enzo Scotti, nel 1991 ministro degli Esteri, parlò di un documento riservato e «non classificato» del capo della polizia, Vincenzo Parisi, su tracce di tritolo trovate sulla nave.

Una famosa puntata di «Mixer» ,programma di Giovanni Minoli, rivelò la testimonianza di un pescatore di frodo che aveva visto scendere degli uomini dalla «Moby Prince» prima dell'impatto, presi poi da un peschereccio. Indagini successive individuarono un uomo che parlò di «scherzo». Minoli chiese scusa, ma i dubbi su uno scambio di persona rimasero. E l'ipotesi aperta 30 anni dopo resta quella di un attentato sfuggito di mano. Un sequestro del comandante costretto all'impatto di qualcuno poi sceso dalla nave. L'impatto provocò l'esplosione, che è accertato avvenne dopo, ma gli attentatori non avevano calcolato i ritardi dei soccorsi. O forse no.

Chi? Perché? C'è chi ipotizza, anche dalle tracce di esplosivo, che dietro ci siano stati interessi mafiosi a entrare nell'affare petrolio e che il bersaglio dell'avvertimento fosse l'Agip petroli. Ma non ci sono certezze e anche eventuali nuove perizie sul relitto non sono più possibili. La carcassa della «Moby Prince» è stata distrutta. E 30 anni dopo il mistero resta.
 

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