Morto Totò Riina. Il complotto, un teorema improbabile

di Salvatore Lupo
Sabato 18 Novembre 2017, 08:48 - Ultimo agg. 08:51
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Dunque Salvatore Totò Riina, questo fosco protagonista della storia italiana dell’ultimo trentennio del secolo XX, è morto. La mente va al 15 gennaio del 1993, quando fu arrestato dai carabinieri del Ros in una via del centro di Palermo. Grande fu allora il sollievo, e l’entusiasmo, nel vedere la cattura di chi guidava un’organizzazione che fatturava miliardi, attraverso affari illeciti o (in apparenza) leciti; che minacciava le pubbliche libertà, controllando il voto, offrendo e ricevendo protezioni e complicità. E con i delitti eccellenti. Ricordiamo, tra gli altri, l’assassinio Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. L’anno precedente, erano appena caduti vittime di apocalittici attentati Giovanni Falcone e la moglie, Paolo Borsellino, le loro scorte. Si sperò che un’era nuova si aprisse per la Sicilia e l’Italia tutta. E in effetti molti mafiosi di alto o medio rango finirono allora in prigione, e ci sono rimasti. Per la leadership corleonese fu l’inizio della fine. 

La mafia era già allora vecchia di cento e più anni. Più che una singola organizzazione, era sempre stata una rete. Interclassista, perché una gran quantità di colletti bianchi (imprenditori, avvocati, medici) si è sempre mossa al suo interno e ai suoi margini. Variegata, perché risultante dalla convergenza di fazioni politiche, gruppi territoriali e affaristici, molti dei quali sono stati da sempre in organica relazione con gruppi consociati negli Stati Uniti. Anche in passato si era pensato che avesse un super-capo (Lucky Luciano in America, Calogero Vizzini in Sicilia), ma si trattava più che altro di forzature mediatiche. 

Forse più a ragione fu attribuito a Riina la qualifica di Capo dei capi in un libro, e in una fiction televisiva. In effetti tante fonti e testimonianze, avallate da una quantità di sentenze, indicano che a partire dalla fine degli anni Settanta, e sin verso il 1993, Cosa nostra visse un processo di estrema centralizzazione, cadendo sotto il controllo della fazione corleonese, dunque del suo capo Riina. 

Io non so quanto costui abbia davvero dominato l’intera rete mafiosa, ivi comprese le sue sezioni periferiche, i consulenti e i soci in affari. Di sicuro, per un lungo periodo (un quindicennio) si mostrò in grado di colpire e comunque intimidire chiunque, facendo di assassinii e stragi si rivelò la via maestra della sua ascesa al potere. Non è un caso se Riina sino a ieri, nelle conversazioni intercettate in carcere (2013), si sia vantato di quei misfatti, abbia rivendicato l’efficacia della sua strategia, abbia irriso gli epigoni incapaci di riproporla.

Fatto sta che dopo il 1993, e sino ad oggi, le cose sono cambiate più. Siamo in un’altra epoca storica. L’organizzazione, indebolita dalla repressione, ha fatto una scelta mimetica, si è “inabissata”, rinunciando ad azioni eclatanti. “La mafia nuova”, è stato detto. La mafia vecchia, si potrebbe dire meglio, quella che in linea generale ha evitato clamori. 

Catturato Riina, i media (e anche qualche inquirente) indicarono come nuovo capo dei capi il suo compaesano e antico sodale, Bernardo Provenzano. Catturato quest’ultimo ben tredici anni più tardi, hanno provato ad attribuire il titolo a qualcun altro, e lo stesso faranno da domani (ne sono certo). Questo a mio parere indica una certa pigrizia mentale. Per quanto ne sappiamo Provenzano, finché è rimasto libero, ha agito più da grande mediatore che da grande capo. Non c’è ragione per credere che il potere politico-finanziario e “militare” accumulato da Riina debba o possa trasmettersi come per un meccanismo di successione monarchica. La mafia oggi è diversa, e i tempi sono diversi: le cronache non registrano traccia della violenza usata in quantità industriali da Riina per accumulare quel suo potere.

Tutto chiaro? No. Ripartiamo da quel gennaio ’93 in cui Riina fu catturato. Non viveva in un “covo”, ma in un appartamento in zona residenziale, insieme alla famiglia, come un innocuo travet. Era disarmato, sprovvisto di guardaspalle e di qualsiasi altro dei simboli del potere criminale o economico. Nel pubblico si sovrapposero, a sollievo e entusiasmo, sconcerto e perplessità. Come mai corrispondeva così poco alla figura del capo dei capi della terribile piovra? Sarebbero d’altronde emerse perplessità analoghe, anzi più forti, alla cattura di Provenzano, uomo dall’apparenza ancor più dimessa della sua. Oggi che, dopo Provenzano, se n’è andato anche Riina, le perplessità sono ancora quelle.

Partendo da esse, una fetta dell’opinione pubblica ha pensato di risolvere le difficoltà interpretative poste da una storia tanto complessa sviluppando una teoria del complotto. Dietro la mafia (e in particolare i suoi delitti eccellenti) ci sarebbe un complotto ordito da poteri occulti (politici, finanziari, massonici), e da “pezzi dello Stato”; in cui i contadinotti di Corleone avrebbero svolto il ruolo degli esecutori, e forse nemmeno quello. Inclinano in questa direzione i magistrati che hanno istruito le indagini interminabili culminate nel processo cosiddetto della “Trattativa”; e i cittadini che si sono schierati su questa linea, nonostante che gli esiti del procedimento siano stati, finora, alquanto inconcludenti. 

Io diffido delle teorie del complotto anche in un campo come questo, che di complotti certamente è intessuto. Trovo inconcludenti le grida contro “lo Stato” che non indichino a quali specifiche persone (o istituzioni) ci si riferisca, che non specifichino il carattere penale, o politico, o morale delle loro responsabilità. Soprattutto, mi sembra che esse finiscano per attenuare la nostra percezione della specificità del soggetto mafia, della sua autonomia, della sua pericolosità. Una sorta di negazione della nostra storia. Resto convinto che a fare le scelte stragiste siano stati Riina & C., e per ragioni che erano le loro. Gli effetti si sono alla fine dimostrati (per loro) controproducenti? Di sicuro. Ma non sono stati capaci di calcolarli a tempo.
 
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