«Non ho rimorsi, a "coso" ho fatto quello che lui faceva agli altri»

Pietro De Negri, soprannominato il "Canaro" (Foto di Collini)
Pietro De Negri, soprannominato il "Canaro" (Foto di Collini)
di Mariella Regoli
Giovedì 17 Maggio 2018, 08:55 - Ultimo agg. 09:00
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Riproponiamo l’intervista che la nostra collega Mariella Regoli fece il 12maggio del 1989 a Pietro De Negri appena uscito dal carcere di Rebibbia: riuscì a entrare nella sua auto e ad accompagnarlo fino a casa. Un documento straordinario dove “il canaro” si considera “un giustiziere” e per la gente del quartiere “un benefattore”. 


Sono quasi le 19 quando dal cancello di Rebibbia esce Pietro De Negri. È scortato da una guardia carceraria che lo aiuta a trasportare numerosi sacchi di plastica scura: il suo bagaglio. Jeans, giubbotto celeste foderato di stoffa a fiori, scarpe da ginnastica e grandi occhiali scuri. È quasi irriconoscibile, visibilmente ingrassato.
Varca il muretto di cemento che delimita il cortile esterno del carcere e inspira profondamente. Poi, si china ad accarezzare il cane di uno dei vice direttori del carcere. «Gran bella bestia - afferma -. Me lo porti in negozio» e accompagna l'invito porgendo un biglietto da visita.

«Non mi sembra vero di essere libero - confessa - . Il mio avvocato mi aveva avvertito, ma ho reagito dicendo che finché non stavo col piede fuori di galera non ci avrei creduto. Sono fuori, mi sento stordito. Ma la mia liberazione dimostra che la giustizia c'è, eccome». La libertà lo eccita, sembra un bambino che abbia marinato la scuola. «Madonna, se penso che ero convinto di dover passare 120 anni in galera, mi sembra dì sognare. Questo anno è stato lungo e per fortuna mia moglie e Sara, la mia bambina, sono venute a trovarmi tutte le settimane». Ogni tanto si interrompe per guardare dal finestrino della macchina; scoppia a ridere «perché sta cosa delle cinture di sicurezza non me la ricordavo, ma mi sembra proprio na ridicolaggine».

È difficile trovare il modo per chiedergli di quel giorno che da mite e indifeso succube di Giancarlo Ricci si è trasformato nel suo carnefice. «Giustiziere - corregge Pietro De Negri - potrei sottoscrivere col mio sangue le prepotenze di quello. Lui usava la sua forza fisica solo per sopraffare il prossimo, che fossi io la vecchietta da rapinare non faceva nessuna differenza. E si vantava della sua violenza. Rideva, quando raccontava le sofferenze che infliggeva alle sue vittime. Io non sono né il sadomasochista né il piccolo grande uomo descritto dai giornalisti. Sono un tipo tranquillo che si arrabbia solo quando scopre di dover alzare la voce per veder riconosciuti i diritti umani più elementari. E se mi incavolo te ce puoi gioca'mamma che ho ragione da vendere. Con coso, al posto mio chiunque avrebbe fatto quello che ho fatto io». «Coso», «quello», De Negri chiama così la sua vittima. «Io ho agito in un crescendo di esasperazione. Non voglio fare la vittima, però. Non ho rimorsi, semmai mi dispiace per i genitori di coso anche se nella stessa situazione credo che rifarei quello che ho fatto quel giorno». Per un attimo si ritrasforma nel Canaro. Ed è in questa veste che cerca di spiegare ragioni impossibili da accettare. «Il Vangelo dice di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Io a quello gli ho fatto le cose che lui faceva agli altri. Andava a rapinare le coppiette che pomiciavano in macchina nei posti appartati. Sbucava dal buio, spaccava i vetri e li rapinava. Una volta, ridendo, mi ha raccontato che non riusciva a sfilare l'anello a un ragazzo e allora gli aveva dovuto tagliare il dito. E io l'ho fatto a lui».

«So che per i giudici il mio non deve essere stato un caso facile. Se mi assolvevano, tutti si sarebbero messi a fare i giustizieri della notte, ma come mi si può condannare? Quello era il terrore del quartiere. Se andava a rubare in un appartamento non si accontentava di svuotarlo, doveva compiere lo sfregio di defecare sul tavolo del salotto. Scippava la vecchietta? Se non la faceva pure cadere non era contento».

Mentre si avvicina alla Magliana, l'eccitazione di Pietro De Negri aumenta. Si vedono i suoi occhi sfavillare dietro le lenti degli occhiali. «Non vedo l'ora di rivedere mia moglie. Mi sono riconciliato con Maria Paolina e passerò questi giorni con lei - scoppia a ridere-. Ho un anno e due mesi di castità da dimenticare. Eppoi vorrei andare al mare. Ho passato un anno in isolamento. L'aria la potevo prendere in un cunicolo di dieci metri per tre. Io che non metto in gabbia nemmeno i cani, mi sono sentito soffocare. Poi, poco tempo fa, mi avevano dato la socialità. Ma non mi importava di stare solo. In carcere mi sono inculturito, leggevo tre quotidiani al giorno e seguivo i dibattiti in televisione. Mi piacciono molto le trasmissioni di Enzo Biagi e quelle di Giuliano Ferrara. Invece mi ha dato molta noia un dibattito nel quale sono stato paragonato a Johnny lo Zingaro. Io non sono un delinquente, anche se non mi si può definire uno stinco di santo».

De Negri fa lunghe pause, salta da un argomento all'altro. «Vorrei che la gente capisse quello che mi ha spinto ad ammazzare. L'ho scritto in un libro che ho intitolato Metamorfosi di una strana ibernazione forzata, è autobiografico e sia chiaro che non cerco né scusanti né giustificazioni. Quello lì per me è morto e sepolto. Volevo dargli solo una lezione, ma lui anche se l'avevo ridotto un invertebrato a suon di tortorate, continuava a fare il prepotente. Affetto tua figlia e ti faccio fuori, mi ha detto e io non ci ho visto più».

Il ritorno nel negozio dove ha ucciso Giancarlo Ricci e le reazioni della gente del quartiere non lo preoccupano. «Qui mi considerano un benefattore - afferma-. In carcere ho fatto tanti progetti, ma so che molti sono castelli in aria. Chissà quanti degli amici che avevo lo saranno ancora? Ma non importa perché ho sempre saputo di poter contare solo su di me. Aprirò una sala da gioco unica in Italia. Ma adesso basta, vi accanno (lascio , ndr)». E si rifugia in casa di un amico dove la moglie e la figlia lo raggiungono.
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