Morte di Stefano Brando per Covid, i periti: «Fatale il ricovero in ritardo»

Morte di Stefano Brando per Covid, i periti: «Fatale il ricovero in ritardo»
di Egle Priolo
Venerdì 21 Maggio 2021, 10:26 - Ultimo agg. 14:54
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PERUGIA - Il ritardo nel ricovero ha limitato la possibilità di salvare la vita a Stefano Brando. Non hanno dubbi il professor Vittorio Fineschi e il medico legale Matteo Scopetti, consulenti di parte della famiglia del medico ucciso lo scorso 19 novembre dal coronavirus e - secondo loro, a questo punto - dall'ospedalizzazione ritardata nonostante le quattro richieste di aiuto.

Nelle quarantotto pagine di relazione, appena depositate in procura, i due esperti periti (Fineschi è ordinario di medicina legale alla Sapienza di Roma e nel curriculum vanta la presidenza dell'Italian Network for Safety in Health Care) ribaltano i risultati raggiunti da consulenti altrettanto blasonati come Antonio Oliva, Vincenzo Arena e Andrea Arcangeli, nominati dal procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini. Che per quella morte - la prima di un medico in Umbria per Covid - ha aperto insieme al procuratore capo Raffaele Cantone un fascicolo per omicidio colposo, ancora comunque contro ignoti. I tre periti della procura hanno infatti certificato l'assenza di responsabilità degli operatori e sanitari del 118, che per primi hanno risposto alle telefonate di Brando per chiedere un ricovero, come nessuna responsabilità dei medici che lo hanno curato, prima in Malattie infettive e poi in Terapia intensiva.
Un finale che invece i consulenti della famiglia, che ha presentato un esposto in procura subito dopo il decesso, evidentemente non condividono. Non solo accennando alla «presenza di una possibile sepsi da Pseudomonas Aeruginosa», una tipica infezione “nosocomiale” che quindi si prende spesso in ospedale (e citata dagli stessi periti dei pm), ma ribadendo con forza i dubbi sui ritardi, dopo quattro telefonate al 118 e il ricovero effettuato solo alla quinta nel momento in cui Brando è svenuto, sbattendo la testa, nel bagno di casa. «Giova rammentare – si legge nella relazione - come il trasporto in ambiente ospedaliero fu attivato solo in data 26.10.2020, allorquando la saturimetria mostrava valori critici pari a 82% e 86%.

Una simile disfunzionalità respiratoria mostrava i prodromi già dai giorni precedenti (…); tuttavia nulla valse ad indurre il corretto inquadramento del Brando come paziente a rischio di evoluzione sfavorevole con prognostico negativo. In forza delle più accreditate evidenze scientifiche di settore, il ricovero ospedaliero rappresentava la modalità assistenziale da intraprendere con priorità in un paziente gravato da probabilità maggiori di un pessimo outcome (soggetto di 62 anni affetto da diabete mellito)». E non solo. Dopo aver citato la «difformità delle condotte sanitarie» (sui tempi del ricovero) rispetto alle direttive dell'Oms, i consulenti di parte concludono sottolineando come «il ritardo nella ospedalizzazione ebbe a determinare in termini di elevata probabilità scientifica una sensibile riduzione delle possibilità di un intervento proficuo sulla ingravescente disfunzionalità respiratoria manifestatasi a partire dal 24.10.2020, pregiudicando notevolmente la prognosi quoad vitam del Brando. Del tutto inaccettabile è il mancato invio in sede ospedaliera del paziente Brando, e non del medico Brando, non potendo certo demandare allo stesso la decisione che è di esclusiva pertinenza medica e non “contrattabile” come sembra essere avvenuto dal colloquio telefonico». Quelle telefonate che la moglie Patrizia e le figlie di Brando, assistite dall'avvocato Marco Piazzai, ormai purtroppo conoscono a memoria. E ogni ascolto è una fitta al cuore di “se” e “ma”.

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