Violenti, volti nuovi e tattiche: così è cambiata la piazza

Violenti, volti nuovi e tattiche: così è cambiata la piazza
di Nino Cirillo
Domenica 20 Ottobre 2013, 09:59 - Ultimo agg. 16:28
4 Minuti di Lettura
ROMA - La violenza sempre quella: scientifica, militarizzata, cieca, anche se frutto di un’esperienza e di un’organizzazione che ogni volta sorprendono. Ma il resto no, a ogni autunno ritroviamo cortei diversi, la rabbia che cresce, la crisi che morde senza piet, le piazze che cambiano protagonisti. Il pomeriggio romano ne stato una conferma: dal magma dei cartelli, dalla musica assordante che ha accompagnato la marcia, sono spuntate facce nuove.

Loro innanzitutto. Somali, eritrei, ragazzi del Maghreb, che sull’onda della commozione mondiale per le stragi di Lampedusa avrebbero voluto ben altro spazio. Saranno stati in cinquecento, agitavano cartelli sul diritto d’asilo, sulla convenzione di Dublino, e continuavano a urlare uno slogan per palati fini: «Siamo capitati in Italia». Come a dire che se fosse per loro se ne sarebbero già andati, che se qualcuno si decidesse a sveltire le pratiche d’asilo, toglierebbero immediatamente il disturbo. Faceva un certo effetto vederli lì, in piazza San Giovanni, così decisi e così compatti, e soprattutto ben intenzionati a non limitarsi alle apparizioni folkloristiche del passato. Hanno anche tentato di conquistare la testa del corteo, ma sono stati respinti.



GLI STUDENTI

Si sono ripresi un certo spazio anche loro, per anni primattori assoluti e poi relegati in secondo piano dalle incursioni delle bande armate. Il corteo che dall’università ha raggiunto piazza San Giovanni già era una scelta, quella di volersi mostrare «altro» rispetto agli incidenti che sicuramente ci sarebbero stati. Per tutti ha parlato ai microfoni di mille tv Paolo, 20 anni: «Questa generazione non è rassegnata a morire di precariato, né a veder morire i migranti in mare».



Avevano una grande bandiera con un teschio al centro e intorno tante stelle, tipo quelle dell’Unione europea, come a voler dire che proprio l’Europa sta uccidendo il loro futuro. Insieme agli studenti, si sono ritagliati una fetta di agibilità anche le famiglie, la gente comune. Vecchie coppie di agit-prop, intellettuali con la pipa, qualche papà con il bambino sulle spalle, e anche una signora colombiana, Marisa, che si affannava a dire a tutti: «Io sono qui perché ci credo».



Questo è il capitolo più amaro, che merita un po’ più di spazio perché anche loro vanno cambiando. Stavolta hanno scelto la coda del corteo. Si sono minacciosamente calati i cappucci in via Cavour e da lì hanno fatto blocco.



I VIOLENTI

Una novità quella di restare alla fine, altre volte s’erano confusi in diversi spezzoni, a rendere più complicato il lavoro delle forze dell’ordine. Si sono riservati solo un’ultimissima fascia di copertura alle loro incursioni e l’hanno usata. Da dove vengono? Da Padova, da Napoli, da Bologna, da centri sociali sparsi un po’ per l’Italia. Partiti tutti insieme l’altra notte dalla stazione di Torino -questo si ricava dalla segnalazioni della Polizia-, hanno svolto il loro odioso compito anche stavolta, decisi a quello e solo a quello.



Confermando una capacità di camuffamento che ormai ha raggiunto alti livelli: cinque minuti dopo gli scontri di via Quintino Sella erano tutti già a volto scoperto, le felpe nere cambiate con altre grigie e loro sparpagliati ai lati del corteo, pronti a riunirsi davanti a Porta Pia. Un’altra novità: qualcosa non deve essere filato esattamente per il verso giusto, a giudicare dagli accenni di rissa fra loro sia all’inizio, a San Giovanni, sia alla fine, a Porta Pia. E poi ancora, a scimmiottare piazza Tahrir: laser da stadio per accecare l’elicottero della polizia quando ormai s’era fatto buio. Per fortuna, nessuna conseguenza.



I MOVIMENTI

Cortei come questi nascono sotto un’egida che appare quasi politica («Senza padroni senza frontiere», c’era scritto sull’autotreno blu che dettava i tempi della marcia per le vie di Roma), e poi la perdono, schiacciati dalla violenza pura. E’ accaduto un po’ anche ieri. Alzi la mano chi ha sentito risuonare le parole d’ordine di No Tav, No Muos, No Expo, chi si è visto consegnare almeno un volantino che spiegasse perché sì e perché no, che approfondisse in qualche modo i temi. Niente. Si è concesso ai giornalisti Mimmo Bruno, 65 anni, ferroviere in pensione di Chianocco, quasi una nenia: «I violenti non siamo noi. Non è vero. È vero piuttosto che vogliono far passar il massaggio no Tav uguale black bloc».



LE DONNE

L’«angelo del ciclostile» degli anni Settanta ormai è solo letteratura. Nel corteo di ieri, in maglietta rigorosamente nera, c’erano invece molte giovanissime che si occupavano del servizio d’ordine.

E non per modo di dire, non per fare coreografia: impartivano ordini, davano segnalazioni. Non scherzavano neppure le ragazze che si sono calate i cappucci nel gruppo dei violenti, pronte allo scontro fisico con gli agenti, a lanciare bottiglie, a sfondare vetrine. E poi, subito dopo, a cambiarsi d’abito.
© RIPRODUZIONE RISERVATA