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Unabomber, il caso si riapre. La vittima Francesca Girardi: «Dopo 20 anni spero ancora di sapere chi mi ha colpito. Non voglio vendetta, ma rivincita»

Il 25 aprile 2003 la ragazza, che all'epoca era una bambina di 9 anni, fu ferita dallo scoppio di un evidenziatore sul greto del Piave

Unabomber, il caso si riapre. La vittima Francesca Girardi: «Dopo 20 anni spero ancora di sapere chi mi ha colpito. Non voglio vendetta, ma rivincita»
Unabomber, il caso si riapre. La vittima Francesca Girardi: «Dopo 20 anni spero ancora di sapere chi mi ha colpito. Non voglio vendetta, ma rivincita»
di Giulia Soligon
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 15 Marzo 2023, 09:00 - Ultimo agg. : 16 Marzo, 08:56
5 Minuti di Lettura

Dopo sedici anni di silenzio, i fascicoli dell'inchiesta su Unabomber archiviata nel 2009 tornano sul tavolo del Tribunale di Trieste. Francesca Girardi e Greta Momesso, all'epoca giovani vittime del bombarolo, sono state le firmatarie della richiesta di riapertura delle indagini.

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Francesca, qual è la sua sensazione ora che torna ad aprirsi la possibilità di dare nome e volto a quell'attentatore?

«Ho respirato un'aria buona. Tutti mi sono sembrati ben decisi ad arrivare a una conclusione. Sia il gip Luigi Dainotti che il procuratore Antonio De Nicolo mi hanno dato l'idea di essere fiduciosi per scrivere la parola fine a un capitolo orrendo della nostra storia. Nulla succede per caso ed è per questo che io ci metto ancora il cuore e tutta la mia forza».

Venti sono gli anni passati da quel 25 aprile 2003, quando, giocando con il tuo amico Marco sul greto del Piave, è stata ferita dall'esplosione dell'evidenziatore giallo. Allora era una bambina di 9 anni, oggi è una donna di 28.

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Cosa ricorda oggi di quel giorno?

«Lo ricordo come se fosse ieri. È tutto ancora molto fresco e nitido. È un'emozione che da quella volta mi brucia dentro e che ogni giorno mi dà la carica per non arrendermi. Mai. Nonostante la ferita però sono andata avanti e sto vivendo la mia vita. Non guardo indietro, sebbene quanto successo non lo dimentichi. Resta un capitolo aperto, sul quale ora chiedo giustizia. Ecco perché ora vorrei si arrivasse a un nome e a volto. Non conosco la persona che mi ha fatto del male, la quale, per quanto ne sappia, può ancora vivere nella nostra società».

Nelle sue parole c'è un senso di vendetta, ma anche energia positiva che l'ha aiutata a elaborare quanto successo. Chi è oggi Francesca Girardi?

«No, non c'è un senso di vendetta ma di rivincita. Ogni giorno quando mi guardo allo specchio vedo chi sono e cosa ho avuto. In questo senso sono una reminder (imprigionata nel ricordo ndr), so da dove provengo, ma il carattere forte e la personalità spiccatamente tenace mi hanno aiutata a guardare avanti, alle cose belle che ancora posso incrociare nel mio percorso. E la riapertura delle indagini è una di queste. Ci credo molto. Nel mio caso è un passato che forgia tutto quello che viene dopo. Sicuramente il vantaggio di essere una donna forte e indipendente mi è stato d'aiuto per accettare e superare una cicatrice, che non è solo fisica, e che alla fine te la porti appresso per il resto della vita. Sopravvivere moralmente a nove anni a quello che a tutti gli effetti è stato un attentato terroristico non è cosa da poco. Direi che tutto quello che viene dopo lo prendo come una passeggiata».

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A questo però ci si arriva con il tempo e con una maturazione interiore. Come ha vissuto i primi anni?

«All'inizio era facile. Ero piccola e non avevo ben capito cosa mi era successo. L'unica cosa che mi interessava era tornare a scuola e rivedere i miei amici. L'avevo presa come un incidente, che può capitare agli adulti, ma che questa volta era capitato a me. I miei genitori poi mi hanno schermata tanto dalla vicenda. Solo crescendo mi sono resa conto che ero stata vittima di un attentato terroristico. Prendere consapevolezza di questo è stato complicato durante l'adolescenza. Negli anni però ho capito che la miglior difesa era quella di continuare a sorridere alla vita senza farsi condizionare dai momenti difficili».

Torniamo a quel giorno. Lei è con il suo amico Marco sotto i piloni del greto del Piave, sta per raccogliere quel pennarello e si accorge della presenza di un uomo...

«Sì, ho notato questa figura con una camicia a fiori che ci guardava e sorrideva. Il pensiero è che fosse una persona comune, venuta lì a godersi la giornata al fiume, ma lui sapeva che qualcosa stava per accadere. Sapeva che saremmo stati noi a raccogliere quell'oggetto. Da quel giorno questa sensazione non mi ha mai abbandonata».

Di solito si pensa che solo chi ha provato un certo tipo di dolore possa trovare dentro di sé una forza che non conosceva e non si aspettava, la stessa che la spinge a non accettare l'archiviazione del caso sollecitandone la riapertura. Alla fine ottenuta.

«La forza può venire fuori in tanti modi e non per tutti è la stessa. C'è chi, segnato da un dolore che gli ha cambiato la vita, preferisce non parlarne e non cercare a tutti i costi una risposta. È una forza anche quella. In fondo ognuno reagisce a modo suo». E qual è la sua? «La mia è quella che ancora oggi mi porta qui a chiedere giustizia. Sono grata di essere arrivata a questo punto, perché dopo vent'anni è un grande obiettivo raggiunto. Non era scontato che venissero riaperte le indagini, ma sono fiduciosa si possa arrivare a mettere un punto finale. Ne abbiamo bisogno. Non voglio parlare per tutte le vittime, ma voglio, questo sì, rappresentare quelle persone che non hanno la voce per essere qui». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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