Usa-Cina, la tensione alimentata dal voto

di ​Romano Prodi
Sabato 1 Agosto 2020, 23:06 - Ultimo agg. 2 Agosto, 08:53
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Non ho mai capito perché, nelle analisi politiche, siano ormai diventati di moda i così detti «cento giorni». Tuttavia, dato che questo è il costume, cercherò di fare alcune riflessioni quando mancano proprio poco meno di cento giorni alle elezioni americane. Ammesso, come penso, che la data del primo martedì di novembre venga rispettata, nonostante l’espresso desiderio di rinvio da parte del presidente Trump.

Le analisi demoscopiche attribuiscono oggi un cospicuo vantaggio al candidato democratico Joe Biden. Eppure sarebbe non solo semplicistico, ma anche del tutto errato ritenere chiusa la partita. Trump, infatti, gode del vantaggio di essere il Presidente in carica e ha già dimostrato di essere in grado di emozionare gli elettori con una campagna elettorale condotta attraverso messaggi semplici e di grande presa popolare, comunicando in modo efficace agli elettori quello che essi vogliono sentirsi dire.

Nonostante questo, la strada di Trump non è in discesa. L’«arma nucleare», su cui contava fino allo scorso marzo, per vincere le elezioni era infatti il positivo andamento dell’economia, con una crescita superiore ad ogni previsione e un numero di disoccupati al minimo storico. Poi è arrivato il Covid19, nei confronti del quale Trump ha reagito con misure di sostegno all’economia americana che non hanno precedenti nella storia di nessun Paese. 

Nonostante queste misure, i dati estremamente negativi resi pubblici negli scorsi giorni dimostrano che la caduta dei consumi e della produzione è più profonda di ogni previsione, mentre la ripresa generale si allontana nel tempo. L’arma nucleare non potrà quindi essere utilizzata quando, fra meno di cento giorni, gli americani saranno chiamati a votare. 

Trump ha bisogno di più tempo e, certo per questo motivo, ha lanciato l’incredibile ipotesi del rinvio delle elezioni, anche perché il voto postale (assai popolare negli Stati Uniti) comincerà a settembre, mese entro il quale una vera ripresa non è nemmeno ipotizzabile.

Meno impossibile, anche se assai complesso, è l’uso elettorale della battaglia contro il Covid, riguardo alla quale Trump ha cambiato strategia in poche settimane. Ne ha prima negato l’esistenza e, successivamente, ha suggerito improbabili rimedi come la clorochina, per poi cambiare politica, sostenendo l’adozione di test e misure di prevenzione come l’odiato uso della mascherina. Infine, convertito sulla pericolosità degli assembramenti, ha perfino deciso di annullare la Convenzione repubblicana. Per non subire i danni del Covid19, i prossimi tre mesi di campagna elettorale dovranno essere perciò dedicati ad esaltare ogni successo nella ricerca e, possibilmente, nel preparare la produzione del vaccino contro il Coronavirus.

Ci dobbiamo quindi aspettare quotidiani annunci di progressi in materia: un segnale in questa direzione sarebbe infatti lo strumento più efficace per alleviare le angosce e le paure che hanno tanto contribuito ad indebolire le probabilità di vittoria di Trump.

Se la ripresa economica e il successo nella lotta contro il Coronavirus sono obiettivi molto difficili da perseguire, un’arma invece efficace è certamente l’aumento della tensione nei confronti della Cina. Anche se si tratta di un sentimento condiviso dall’assoluta maggioranza degli elettori (sia repubblicani che democratici) il presidente Trump si è più di ogni altro impadronito di questa bandiera. L’iniziale intesa con Xi Jinping è durata solo lo spazio di un mattino. Le tensioni sono cominciate nel campo commerciale con l’imposizione di crescenti dazi a protezione delle imprese e del livello di occupazione americano, provocando ovviamente simmetriche decisioni da parte cinese. La guerra dei dazi non poteva tuttavia superare certi limiti, anche perché gli interessi dei due Paesi erano da tempo troppo intrecciati: basta pensare che il 40% delle esportazioni cinesi sono generate da imprese multinazionali, in prevalenza americane. La tensione si è quindi trasferita dal campo commerciale a quello della superiorità tecnologica, riguardo alla quale il caso Huawei è ormai diventato il simbolo perché incide direttamente sul futuro dominio politico. La tensione fra Cina e Stati Uniti si è infatti trasformata in una lotta per la supremazia del mondo: una sfida che raccoglie evidentemente il favore dell’assoluta maggioranza dei cittadini di entrambi i Paesi, siano essi gli elettori degli Stati Uniti o i novanta milioni di iscritti al Partito Comunista Cinese. 

Con il progredire della campagna elettorale le tensioni si sono tradotte in gesti reciprocamente più aggressivi nel campo militare, nella chiusura di sedi consolari e negli scontri verbali, i più duri dei quali sono stati delegati da Trump al segretario di Stato Mike Pompeo, che ha addirittura sostenuto l’esistenza di un insanabile contrasto fra i membri del Partito Comunista e il popolo cinese. Viene ovviamente spontaneo paragonare questo clima a quello della guerra fredda fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, tanto è vero che le analisi delle similitudini e delle differenze fra i due casi occupano sempre più l’attenzione degli analisti politici. 

Tutte queste riflessioni non possono che destare la nostra preoccupazione: esse tuttavia riguardano più il futuro che il presente. È invece certo che nei prossimi tre mesi il presidente Trump non permetterà che il candidato democratico si presenti di fronte agli elettori come il più credibile paladino della superiorità americana. Prepariamoci quindi ad assistere presto a nuove sorprese. Penso tuttavia che la potenza dei due Paesi contendenti abbia raggiunto livelli tali da rendere quasi impossibile una guerra, come peraltro fortunatamente avvenne nei pur difficili rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. È forse più probabile, e quindi più pericoloso, che le due grandi potenze, come spesso avviene, si misurino in scenari terzi. E che, quindi, si esasperi la tensione fra gli Stati Uniti e l’Iran, una tensione che è già troppo cresciuta nel recente passato. I conflitti con Paesi del Medio Oriente sono infatti un evento quasi ricorrente nella recente storia americana.
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