Uso e abuso dell’ultimatum di un candidato premier

di ​Paolo Macry
Venerdì 27 Aprile 2018, 09:32
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Ultimatum o bluff. Il giudizio sulla gestione della crisi da parte di Luigi Di Maio (e la previsione su quanto accadrà nei prossimi giorni) sta tutta in questa alternativa. Si tratta di capire cioè se siamo di fronte a una leadership che avanza a colpi di dichiarazioni stringenti, richieste forti, strategie accorte. O che, fin dalle prime battute, ha fatto credere quel che non era. E poi, non avendo in mano le carte buone, ha finito per infilarsi nel classico cul de sac.
Ieri Di Maio, come fulmine a ciel sereno, ha riesumato lo spettro di una nuova legge sul conflitto di interessi. È sembrato un invito perentorio a Berlusconi affinchè si astenga dal tenere la Lega prigioniera del centrodestra e un messaggio a Salvini affinchè abbandoni l’alleato. Il giorno prima, lo stesso Di Maio aveva reso esplicita un’altra minaccia. Se il governo M5S-Pd non andasse in porto, aveva detto, data la nostra indisponibilità ad altre ipotesi, non resterebbe che il ritorno alle urne. Ma anche nelle settimane precedenti il leader grillino aveva utilizzato il modello dei due forni (tardiva riabilitazione di Giulio Andreotti) come arma di ricatto. Stiano attenti, era il messaggio a Lega e Pd, perchè, se uno viene meno, c’è sempre l’altro. Del resto la grandine delle dichiarazioni apodittiche era iniziata subito dopo il 4 marzo, quando il capo M5S aveva spiegato che, essendo titolare di undici milioni di voti, la premiership gli era dovuta. Un tweet inviato direttamente al Colle.

Sono quasi due mesi che Di Maio usa a piene mani il linguaggio dell’ultimatum. Ma si tratta di una strategia avventurosa. Da Sun Tzu a von Clausewitz, è fin troppo noto come l’ultimatum, per essere credibile, sia un’arma da usare con estrema parsimonia. Una minaccia che deve comunque prevedere la possibilità di reagire adeguatamente, ove mai restasse inascoltata. Perchè altrimenti diventa un bluff. È quello che sta capitando al leader pentastellato. Il quale, con il passare delle settimane, è apparso sempre meno attendibile perché i suoi diktat si sono rivelati, uno dopo l’altro, fin troppo simili a bluff. Era pretestuosa (com’è stato detto e ridetto) la richiesta categorica di avere palazzo Chigi, dato il vigente sistema proporzionale e la storica debolezza coalizionale del M5S.

È apparsa inconsistente la ghigliottina dei due forni, vista l’impossibilità leghista di abbandonare un centrodestra di cui potrebbe conquistare la leadership e l’impossibilità di un Pd diviso al proprio interno di garantire i numeri parlamentari. Ed è sembrato poco credibile, non di meno, minacciare Berlusconi di una ritorsione ad personam, stanti le palesi difficoltà politiche in cui si dibatte oggi il leader grillino.
 
Ma probabilmente è un bluff lo stesso ricatto delle urne. Se mai si giungesse all’ipotesi di un governo tecnico, o tecnico-politico, o di scopo, o presidenziale che chiedesse l’appoggio dell’intero arco parlamentare, non sarebbe facile per Di Maio dire no e, con questo no, mandare il Paese a nuove elezioni. Una simile responsabilità, che forse all’indomani del voto sarebbe stata digerita dall’opinione pubblica e magari avrebbe anche premiato i Cinque Stelle come gli unici e puri anti-Casta, verrebbe letta in altro modo oggi, dopo settimane di tatticismi, giravolte, mediazioni. Marchingegni dei quali Di Maio ha finito per assumersi praticamente tutta la paternità. Senza dire (nella prospettiva di elezioni ravvicinate) che lo stesso popolo grillino sembra gradire assai poco le alleanze ventilate e il neo-moderatismo del suo gruppo dirigente. E che comunque, di fronte all’ipotesi di scioglimento delle Camere, bisognerebbe fare i conti con i neoeletti, disposti a tutto o quasi tutto pur di non fare le valigie. Disposti, anzi molto disposti, per esempio, a dare il via libera a un governo del Presidente.

Naturalmente ogni valutazione è opinabile e le cose potranno sempre andare in altro modo. Con un’ennesima giravolta. Con un forno che riapre. Con il Pd che alla fine abbocca all’amo. E via dicendo. Quale che sia l’esito della storia, tuttavia, restano un paio di certezze. La prima è che l’autoproclamato vincitore del 4 marzo ha giocato la partita con poca fantasia politica, pretendendo di costruire equilibri e alleanze senza troppo badare agli altrui programmi, identità, culture, sentimenti. Senza troppo badare neppure ai propri. La seconda certezza è che la catena degli ultimatum, dei diktat, dei bluff non gioverà ai giovani meridionali senza lavoro, agli imprenditori del Nord tartassati dal fisco, alla piaga del debito pubblico, eccetera. Non gioverà cioè al Paese. Il quale guarda in silenzio e (viene il sospetto) non apprezza.

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