Vittime innocenti di mafia, la beffa degli indennizzi

Vittime innocenti di mafia, la beffa degli indennizzi
di Daniela De Crescenzo - Maria Pirro
Sabato 5 Maggio 2018, 22:53 - Ultimo agg. 9 Maggio, 22:41
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La morte non è una livella. Per lo Stato italiano, le vittime innocenti si dividono in gruppi, in categorie, in serie, dalla A alla Z. Il risarcimento può arrivare dopo anni (tanti anni) o addirittura non arrivare mai, perché dipende dalla condanna inflitta al killer. Che continua così a segnare il destino crudele di queste famiglie: unite nel dolore, separate nelle prospettive.

Trecentonove nomi sono ricordati in un elenco, redatto dalla Fondazione Polis. Ci sono i nomi di bimbi uccisi per sbaglio, di donne bruciate, di caduti nel corso di rapine finite nel sangue. Trecentonove vittime innocenti, trecentonove famiglie che sono state travolte e spesso fanno fatica ad andare avanti anche dal punto di vista economico. E qui interviene lo Stato che, però, ne aiuta solo alcune in maniera efficace. Sostanzialmente, la legge prevede quattro diversi trattamenti per gli eredi di chi è stato colpito dai brigadisti e altri gruppi armati (29 le storie censite in Campania), dalla criminalità organizzata (140 casi nella regione), sul posto di lavoro (27) o per altri reati (113). Quindi, se proprio bisogna morire, è «meglio» che a sparare sia stato il Prospero Gallinari di turno. Al congiunto, ai fratelli conviventi e ai figli del defunto viene riconosciuta la pensione di reversibilità, con i successivi incrementi e tante ulteriori forme di sostegno, fino agli sconti per l’abbonamento ai trasporti pubblici. Provvedimenti di cui altri non possono avvalersi, come si evince leggendo le norme modificate più volte nel tempo. Al secondo posto, nella lista dei possibili benefici, ci sono quelli assegnati ai parenti delle vittime del dovere e della mafia, come il vitalizio e duecentomila euro a titolo di particolare elargizione. Ma non mancano differenze ulteriori, anche sulle regole di accesso: per il terrorismo, ovviamente occorre  dimostrare di essere estranei al delitto e non avere parenti fino al secondo grado con precedenti penali. Per le cosche si arriva, invece, al quarto grado. Una restrizione scattata dopo la cosiddetta strage delle donne a Quindici, nell’Avellinese. Risale al maggio 2002 lo scontro tra parenti dei boss del clan Cava e quelli del clan Graziano, in cui morirono in tre e una restò paralizzata e ai familiari venne riconosciuta la rendita, tra reazioni indignate. Ed ecco il giro di vite.

Ora basta avere un cugino che abbia commesso un reato per perdere qualunque forma di sussidio. Non solo: se si accetta un altro risarcimento, si mette a rischio l’altro sussidio, quello pubblico. Solo che per ottenere gli aiuti dello Stato bisogna aspettare anche dieci anni, difatti in Campania ci sono famiglie in attesa dal 2010, perché è necessario che la sentenza sul delitto sia passata in giudicato. I soldi della malavita, invece, arrivano subito.

È esemplare il caso di Gelsomina Verde, massacrata a 22 anni durante la faida di Scampia. «Il corpo della giovane donna, uccisa con tre colpi di pistola alla nuca dopo ore di tortura», è stato «bruciato per nascondere i terribili segni della violenza inferta», si legge sul sito della Fondazione Polis, che assiste le vittime innocenti nella regione e sottolinea: la ragazza era «del tutto estranea alle logiche della camorra», impegnata nel volontariato. I suoi cari, senza risorse e disperati, hanno accettato trecentomila euro da Cosimo Di Lauro e non avuto fondi statali. 
Il trattamento peggiore, però, è riservato a chi è colpito da un «criminale comune»: per i delitti precedenti al 30 giugno 2005 non è previsto un euro; per gli altri avvenuti dopo questa data non scatta il vitalizio, l’indennizzo è irrisorio (da 3000 a 8200 euro da dividere tra gli aventi diritto), non copre nemmeno le spese per istruire la pratica. Lo sanno bene, ad esempio, i familiari di Luigi Sica, accoltellato senza motivo nel 2007, quelli di Daniele Del Core ammazzato per difendere un compagno. E i parenti di Paolino Avella, colpito durante una rapina a San Sebastiano al Vesuvio nel 2003. Stesso destino per Davide Sannino, ucciso a Massa di Somma nel 1996 perché aveva «osato» guardare in faccia chi stava portando via lo scooter dell’amico. Cambiare le norme è una questione di soldi, ma soprattutto di giustizia.
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