Il governo australiano non avrebbe tutelato il diritto alla vita del figlio, venendo meno ai suoi obblighi verso i diritti umani prescritti dalle leggi internazionali. Per questo una donna indigena in Australia ha annunciato di aver presentato una denuncia alla Commissione Onu per i Diritti umani per la morte di suo figlio in carcere 6 anni fa a Sydney.
Leetona Dungay ha detto che nessuno è stato chiamato a rispondere della morte di suo figlio di 26 anni, David Dungay, nel carcere di Long Bay nel dicembre 2015. E che spera con la sua denuncia di spingere le autorità a intervenire, contro i responsabili di questa e di altre morti di indigeni in detenzione. L'inchiesta del coroner aveva accertato che Dungay, malato di diabete, era morto dopo essere stato immobilizzato e iniettato con un sedativo, dopo il suo rifiuto di continuare a mangiare biscotti nella sua cella. Le sue grida di «I can't breathe», nei momenti prima della morte, hanno indotto i suoi sostenitori a tracciare un parallelo con il caso dell'afroamericano George Floyd, la cui uccisione nel 2020 ha fatto scattare le proteste globali Black Lives Matter.
«Noi speriamo che questa denuncia metta in luce su scala globale la crisi di incarcerazione che colpisce il popolo delle Prime Nazioni in Australia», ha dichiarato l'accademica aborigena Larissa Behrendt, che ha aiutato a redigere la denuncia. «Dobbiamo ricorrere alla ribalta internazionale per chiedere giustizia, per svergognare il nostro governo e spronarlo ad agire, a denunciare il razzismo sistematico attraverso il sistema giudiziario», ha dichiarato a sua volta Leetona Dungay. «Il governo e il sistema carcerario avevano il dovere di curare e di mantenere al sicuro mio figlio, con persone adeguatamente formate per tenerlo in vita.