Brexit, il bluff della May sul piano B

Brexit, il bluff della May sul piano B
di Cristina Marconi
Martedì 22 Gennaio 2019, 12:00
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LONDRA - Theresa May continua a concentrare tutti i suoi sforzi negoziali sulla clausola di salvaguardia irlandese per arrivare all'approvazione del suo accordo sulla Brexit da parte di un parlamento che solo una settimana fa l'ha bocciato con 230 voti di scarto. La premier britannica, tornata ieri pomeriggio ai Comuni, ha presentato un piano B in tutto e per tutto simile al piano A al termine di una settimana di consultazioni con i deputati degli altri partiti in cui ha ascoltato le varie richieste senza mai abbandonare le linee rosse riguardanti il rifiuto di restare nell'unione doganale e nel mercato unico. La principale novità annunciata ieri riguarda il fatto che i cittadini europei non dovranno pagare nulla per restare a tempo indeterminato nel Regno Unito in futuro. Non solo non dovranno essere versate le 65 sterline dei costi di registrazione in base al nuovo sistema semplificato introdotto proprio ieri, ma chi lo ha già fatto verrà rimborsato.
 
Per il resto la premier, sempre restia a fare mosse che mettano a repentaglio la tenuta del partito conservatore, non ha voluto escludere la possibilità di un no deal, dicendo che l'unico modo per evitare lo scenario è approvare il suo accordo, oltre ovviamente a quello, impensabile, di «revocare l'articolo 50, che vorrebbe dire rimanere nella Ue». Un rinvio, a suo avviso, sarebbe solo un modo per «rimandare il momento della decisione», cosa che comunque Bruxelles non accetterebbe in assenza di un piano sicuro. L'idea di un secondo referendum è stata respinta in quanto pericolosa per l'unità del paese, per la coesione sociale e la fiducia nella democrazia e, non ultimo, perché non c'è una maggioranza. Mentre il leader laburista Jeremy Corbyn continua a rifiutare di incontrarla, altri deputati dell'opposizione stanno facendo un gioco più duro e più astuto per cercare di scongiurare il peggio. Come Yvette Cooper, secondo cui la May parla come se «avesse perso con 30 voti e non con 230». Ha proposto un emendamento per assicurare che ci sia lo spazio per discutere a Westminster di una eventuale estensione dell'articolo 50 fino alla fine dell'anno se non viene raggiunto un accordo entro una data specifica.

La responsabile per Lavoro e pensioni Amber Rudd, remainer di solito leale alla premier, ha fatto sapere che ci sarebbero numerosi membri del governo, tra ministri e sottosegretari, pronti a dimettersi qualora la May non permettesse ai conservatori libertà di voto sul testo, come a far presente che non sono solo gli euroscettici dell'influente think tank Erg a poter ricattare il governo. Ma per ora la May non si smuove e continua a cercare lì i voti, invece di aprirsi alle proposte dei laburisti con le quali si potrebbe più facilmente raggiungere una maggioranza intorno alla permanenza nell'unione doganale, che avrebbe però il difetto di non permettere di stringere accordi commerciali separati.

I Tories, che da sempre sono sul punto della spaccatura sul tema europeo, potrebbero veramente esplodere questa volta ed è difficile che la May, conservatrice da quando aveva 12 anni, si voglia prendere questa responsabilità storica. Qualche maligno suggerisce che stia aspettando che lo facciano gli altri, e che mantenendo la sua posizione inamovibile lasci il tempo ai moderati di trovare una soluzione che non porti la sua firma e che salvi il paese da una scelta sbagliata. O che aspetti solo che si avvicini la data del 29 marzo perché Westminster venga presa dal panico e accetti il suo accordo, magari con qualche correzione sull'Irlanda e sui temi ambientali e i diritti dei lavoratori, come chiesto da alcuni dei deputati con cui ha parlato. In questo scenario di stallo più di qualcuno inizia però a pensare che le elezioni, al di là dei sogni di gloria del leader dell'opposizione Corbyn, siano l'unico modo legittimo di uscire dall'impasse.
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