Coronavirus e proteste: viaggio tra gli italiani di un’America in fiamme

Coronavirus e proteste: viaggio tra gli italiani di un’America in fiamme
di Luca Marfé
Giovedì 4 Giugno 2020, 13:58 - Ultimo agg. 19:52
5 Minuti di Lettura
Uno tsunami. Anzi due.
Prima la pandemia di coronavirus, poi le proteste antirazziste.


Un disastro chiamato America, un “Sogno Americano” apparentemente agonizzante per tanti connazionali che negli Stati Uniti ci vivono, ci lavorano, ci sperano.
E lo fanno ancora, nonostante tutto.
Nonostante le manifestazioni si siano convertite in vere e proprie devastazioni.
Nonostante le saracinesche abbassate o peggio distrutte.
Nonostante l’orizzonte non si veda neanche più.

Tante voci, da New York a Los Angeles passando per Chicago.
Piene di paure, di un pizzico di rabbia, ma pure di speranza.

E un’espressione su tutte che tuona al centro: «Guerra civile».
 

Piero Armenti, urban explorer, New York.

«Siamo in una New York paradossale.
È come se in 60 giorni si fossero materializzate tre crisi epocali: una economica, come quella del ’29; una sanitaria, come l’influenza spagnola del ’18; una sociale, con le proteste in stile anni ’60».

Il blogger più famoso della Grande Mela è incredulo, ma non perde il coraggio:
«New York ne uscirà».


Domenico Vacca, stilista, New York.

«Situazione da guerra civile», taglia corto il fashion designer e imprenditore pugliese.

«Più che manifestanti, vandali: distruggono tutto ciò che trovano e rubano qualsiasi cosa. In frantumi le vetrine dei negozi. In fuga, loro, con la loro bella refurtiva».

Entra a gamba tesa anche sulla politica:

«Irreale vedere la polizia che non fa assolutamente nulla. Incommentabile, infine, il sindaco De Blasio che non sta facendo a sua volta nulla per sostenere chi fa business in questa città».

«Noi abbiamo dovuto chiudere il nostro flagship store e mettere pannelli di legno davanti per proteggere le vetrine, l’ingresso, il negozio. E quando i privati devono proteggersi da soli vuol dire che i politici non stanno facendo bene il loro lavoro».

E chiude:

«Speriamo che finisca presto. Speriamo che queste proteste magari continuino, perché è giusto che si continui a protestare per le ingiustizie razziali. Ma speriamo anche che queste persone che invece, usando il nome di George Floyd distruggono tutto qui a New York, la smettano con questi crimini».


Alberto Milani, presidente della Camera di Commercio Italia-America, New York.

Si concentra invece su coronavirus e ripartenza Alberto Milani, altro veterano della Grande Mela.

«Il momento che viviamo, in tre parole: ingresso, infezione e contagio.
Di solito il termine contagio viene utilizzato con un’accezione negativa, ma di fatto comporta anche l'eliminazione dei punti di frizione dall’ingresso», esordisce comunque sorridente.

«Abbiamo una nuova sfida che è quella di agire in maniera diversa per poter emergere, persino risorgere, dalla pandemia più forti di prima. Un contagio quindi positivo, di nuove idee per una società più sostenibile e più unita».


Carlo Nardone, avvocato, Los Angeles.

Nel suo video girato all’aperto, si sentono gli elicotteri in volo «che non smettono più».

«Il Covid-19 è stato il mio compagno di avventura nel sostenere il “Bar Exam” (l’esame di Stato, ndr) della California a fine febbraio. Subito dopo, le cose sono precipitate: l’incertezza dei risultati si è aggiunta allo scenario apocalittico del virus».

Tuttavia, tra stop e disastri, almeno un lieto fine:

«Nonostante le procedure burocratiche rallentate, a maggio ho saputo di aver superato l'esame. Appena erano ricominciate le prime uscite, siamo brutalmente piombati nelle rivolte. Sabato ero ai piedi della mitica scritta di Hollywood e sono dovuto letteralmente scappare per sperare di rientrare a casa senza problemi. Domenica mattina ero a Santa Monica e ho fatto appena in tempo a lasciarla prima che venisse distrutta.
La notte è un susseguirsi di sirene della polizia e pale di elicotteri.
Spero di poter tornare a vivere per poter finalmente coronare il mio sogno: giurare come attorney».


Christian Fantoni, imprenditore, Chicago.

Faccia a faccia con il caos:

«Sono stato attaccato nel mio ristorante e le paure sono tante. Al di là del business, in ginocchio, distrutto, temo per l’incolumità della mia famiglia. Per la loro sicurezza, per la loro protezione».

Gli trema la voce, ma va avanti:

«Devo pensare a come ripartire, a come tenere al sicuro anche il mio personale, sin da quando i miei impiegati escono di casa per venire a lavoro. Credo ancora nella speranza di una piccola scintilla, per questo Sogno Americano che si sta spegnendo».


Lorenzo Montesanto, pizzaiolo, da New York alla Florida.

Qualcuno, pur di ricominciare, molla tutto e si sposta.
È il caso del pizzaiolo siciliano Lorenzo Montesanto che della Grande Mela evidenzia anche il problema di un carovita a dir poco folle.

«Ci pensavo già da un bel po’ e il casino coronavirus e rivolte ha fatto traboccare il famoso vaso. Ho deciso di smarcarmi dalla massa e di lasciare New York. Me ne vado in Florida: stesso salario, ma spese dimezzate».

Suona anche una nota politica:

«Un governatore repubblicano, un vero patriota. E una bella scuola per mio figlio».


Paola Cortona, libera professionista, New York.

Laureata in scienze politiche, trapiantata qui negli anni ’70.
Parte forte proprio sul fronte della politica e non le manda di certo a dire.

«Non mi sono mai considerata una repubblicana, ma per come stanno precipitando le cose, sostengo Trump perché sta cercando di mantenere sovranità, legge e ordine degli Stati Uniti».

Si spiega meglio, aggiunge:

«Il giochetto è evidente: dare tutte le colpe a lui, del coronavirus e della morte di George Floyd, nella speranza di prendere più voti a novembre. Guarda caso gli unici Stati agitati sono quelli democratici: vorrebbero convincerci del fatto che se non ci fosse Trump tutto questo non accadrebbe e fa spavento la censura, che risparmia solo la narrativa ufficiale e mainstream, e che al contrario soffoca gli indipendenti sui social media».


Giorgio Bruno, interprete, New York.

Un ragazzone alto due metri, che si è ambientato al punto da aver rinunciato al calcio per il football americano.

«Mi guardo attorno e mi dispero perché tra le insoddisfazioni della gente, mi sento come se la mia fosse quella più grande. Quella del non riuscire a fare niente, del sentirsi immobile, impotente, perché non posso combattere contro qualcosa che è molto più grande di me e di noi».

Ha il morale a terra, ma un cuore grande. E si lascia andare a un’onda lenta di nostalgia:

«Le persone hanno perso il senso di unità, per le strade dilaga l’egoismo mischiato con l’odio.
Non so se sia peggio questo o l’incubo della pandemia. Ogni tanto chiudo gli occhi e sogno Napoli, soleggiata, con le persone che mi sorridono».

Gli manca casa. Come a tutti quanti loro forse un po’.
Come sa mancare, nonostante tutto, solo e soltanto l’Italia. 
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