Nagorno Karabakh, la moglie dell'ambasciatore dell'Azerbaigian in Italia su Facebook: «Io figlia della guerra, profuga a 7 anni»

Nagorno Karabakh, la moglie dell'ambasciatore dell'Azerbaigian in Italia su Facebook: «Io figlia della guerra, profuga a 7 anni»
Martedì 13 Ottobre 2020, 12:11 - Ultimo agg. 16 Febbraio, 11:08
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Aynura Maye è la moglie dell’ambasciatore dell’Azerbaigian in Italia, Mammad Ahmadzada. È una donna riservata. Non si occupa di politica anche se ha fatto studi diplomatici a Washington. A Roma, dove vive con i due figli e il marito, si interessa di arte e di moda. Ma quello che sta succedendo in questi giorni nel Nagorno Karabakh ha risvegliato in lei ricordi e dolori che non si cancellano. Perché Aynura è una delle tante vittime del conflitto: era una bambina nel 1988 quando, a 7 anni, diventò improvvisamente una profuga. E oggi ha deciso di raccontare la sua storia in un lungo post pubblicato sul suo profilo Facebook. «Odio l’autocommiserazione e preferisco essere riservata sulle difficoltà della mia vita. Tenere a bada i ricordi passati e accompagnare forti emozioni è stato per me uno sforzo costante. Eppure, ora con così tante bugie e finti canti emotivi in giro e con le strazianti notizie di civili pacifici che vengono colpiti, condividerò alcune clip della mia vita, della mia esperienza personale soltanto per dare una prospettiva a chi vorrà leggere».

I hate self-pity and prefer to be secretive of the soft spots of my life. Keeping past memories and accompanying strong...

Pubblicato da Aynura Maye su Domenica 11 ottobre 2020

«Sono una figlia di guerra e una profuga già a 7 anni. Etnicamente azerbaigiana, sono nata in Armenia da genitori azerbaigiani.

Ho cercato per troppo tempo di sopprimere e dimenticare quei ricordi perché non volevo che definissero la mia vita e il mio destino. Anche convivere con il passato è dannatamente doloroso. E oggi mi sembra di vivere di nuovo quell’incubo. Il ricordo torna alle mattine grigie e fredde dell’autunno del 1988 e scatena una nuvola pesante di emozioni e di amarezza per gli eventi che seguirono per molti anni. I nostri genitori non ci dicevano tante cose perché eravamo piccoli. Ma la pesantezza della situazione si avvertiva da tutto quello che succedeva intorno. Una mattina ci siamo svegliati e abbiamo visto i nostri genitori sistemare le cose per fare le valigie nel caso avessimo dovuto fuggire. Non sapevano se lo avremmo fatto. E non ci volevamo credere. Stavamo soltanto attenti. Neanche i nostri genitori hanno fatto le valigie perché pensavano che le cose sarebbero finite presto».

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«Una mattina grigia – continua il racconto di Aynura – la prima cosa che ho sentito quando mi sono svegliata è stato mio padre che diceva: ‘In Qarabag (Nagorno Karabakh) gli armeni hanno iniziato ad attaccare gli azerbaigiani. Questo significa attaccare letteralmente i vicini e gli amici con i quali ciascuno ha condiviso i giorni buoni e i giorni brutti. Abbiamo sempre partecipato ai matrimoni e ai funerali l’uno dell’altro’. Mio padre stava vagamente immaginando che cosa poteva succederci. Quella mattina ha segnato l’inizio di un lungo viaggio: il destino dei rifugiati, la vita privata sconvolta, costretta a lavorare in fattorie e stalle quando avrei dovuto andare a scuola, addormentandomi tra le grida di angoscia delle madri che ricevevano i cadaveri dei figli morti, guardando le lacrime silenziose di giovani donne che vedevano i loro cari o i loro mariti che finivano sottoterra, osservando dialoghi senza parole di uomini con le facce pietrificate dal dolore. Quell’esperienza di vita lascia segni irreversibili sul valore di sé e sulla percezione di sé. La soglia degli standard di vita finisce così in basso che non si può semplicemente considerarla degna di una vita decente. E io ero una delle circa 200.000 persone che fuggivano come profughi».

«Un paio d’anni passati in fretta fino a che siamo riusciti a sistemarci in una delle principali città dell’Azerbaigian. Ed ecco che mio zio è dovuto fuggire da Aghdam perché la guerra era in pieno svolgimento. Avendo totalmente occupato Karabakh, gli armeni ora stavano espandendo il conflitto ai distretti adiacenti. Aghdam è uno di quei sette distretti adiacenti che ora sono sotto l’occupazione armena. E mio zio con la sua famiglia era solo uno dei circa 800.000 sfollati del Nagorno Karabakh e di quei sette distretti».

«Visto che non avevano un posto dove stare, li abbiamo accolti da noi nel nostro piccolo appartamento con tre camere da letto. Eravamo una famiglia di sette persone. La loro era una famiglia di cinque persone. Totale 12 persone in 3 camere da letto, in un appartamento con un bagno, per oltre 18 mesi. Moltiplicate questa situazione per un milione di rifugiati e sfollati interni che costituiscono, poi, il 10 per cento della popolazione totale dell’Azerbaigian. E noi eravamo tra i fortunati perché avevamo un tetto sopra la testa. Alla fine abbiamo perso mio zio per una emorragia cerebrale. Mio padre ha vissuto nel suo ricordo mentre guardava scorrere la propria vita. Immaginate l’impatto sulla salute mentale della famiglia e dei bambini. Ora, dopo quasi 30 anni, quella tragedia ritorna. Oggi, se possibile, ancora più devastante perché vengono bombardati i civili nelle principali città strategiche anche lontano dalle linee. È estremamente difficile fare pace con se stessi in questi tempi». Un racconto, quello di Aynura Maye che si conclude con un appello su Facebook: «Leggete e condividete se vi interessa! Grazie».

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