La nuova guerra del petrolio
dietro il paravento religioso

La nuova guerra del petrolio dietro il paravento religioso
di Flavio Pompetti
- Ultimo agg. 3 Gennaio, 11:00
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NEW YORK Vittime di una guerra maggiore, o perlomeno di interessi economici della massima portata. Le quarantasette esecuzioni con le quali la casa di Saud ha aperto il 2016 sono sì un atto di repressione contro la minoranza sciita e un tentativo di ribadire l’autorità del governo nelle zone di confine tumultuose dello Yemen e del Bahrain. Ma in primo luogo sono uno schiaffo in faccia all’Iran e al suo tentativo di ristabilire una presenza politica ed economica di maggior peso all’interno del mondo arabo. E in questo braccio di ferro in piena fase di ingaggio, il petrolio è al tempo stesso il simbolo del potere in palio e il vero oggetto della contesa. 
«Il petrolio è l’elemento dominante e la guida dell’intera politica saudita al momento», ha detto alla Cnn Jason Bordoff, ex consulente per la sicurezza internazionale di Obama, ed attuale direttore del Columbia Center per le Politiche sull’Energia Globale. Non potrebbe essere altrimenti, vista la portata della posta in gioco.

I POZZI RIAPRONO
L’Arabia Saudita domina da trentacinque anni la scena internazionale del mercato petrolifero, in buona parte grazie alla posizione di dominio che è gli è stata assegnata in seguito all’embargo sul petrolio iraniano, deciso dagli americani dopo la rivoluzione del 1979. Questo privilegio sta ora per sparire, per mano degli stessi Stati Uniti che fino ad ora sono stati i migliori alleati internazionali della casa reale saudita. Alla fine del mese di gennaio, salvo imprevisti sempre possibili vista la precarietà degli equilibri nella regione, l’Iran tornerà a pompare dai pozzi da tempo chiusi per mancanza di domanda. Nei primi tempi ci sarà da riabilitare strutture danneggiate dall’incuria e dalla mancanza di aggiornamento tecnologico. Ci si aspetta che la capacità produttiva per il primo anno, che è dichiarata intorno al milione di barili al giorno, si riveli in realtà circa dimezzata. Ma nel giro di un biennio, e con il volume di affari e di investimenti in arrivo, il greggio iraniano potrebbe raggiungere il picco di 6 milioni di barili che venivano estratti quotidianamente prima della rivoluzione.



LA MISSIONE IN CINA
Il petrolio non obbedisce agli equilibri politici esistenti, ma ha il potere di crearne di nuovi in modo autonomo, e i sauditi temono che questo tsunami di oro nero possa cambiare le carte in tavola di un equilibrio del quale hanno goduto così a lungo. È per questo che lo scorso mese emissari del governo di Riad si sono precipitati a Pechino, a correggere i contratti che avevano già legato la Cina ad una fornitura giornaliera di 500 mila barili di petrolio iraniano. La trattativa ha avuto successo, e il volume dell’importazione è stato dimezzato. È per lo stesso motivo che delegazioni saudite stanno bussando alle porte di tanti paesi europei con l’offerta di forniture a prezzo scontato per il 2016. La quotazione del greggio è destinata per questo, e per altri motivi, a scendere ulteriormente durante i prossimi mesi, e quindi i sauditi stanno solo anticipando un orientamento che il mercato è destinato ad esprimere in ogni modo. Ma con la loro manovra sperano di tagliare le gambe sul nascere alle ambizioni iraniane. Senza contratti in arrivo a Teheran, sperano di inceppare nuovamente un’industria che altrimenti tornerebbe ad essere competitiva. Tra i due paesi è in atto una guerra contro il tempo per alterare gli equilibri esistenti. L’Arabia Saudita sta pagando a caro prezzo la politica della caduta libera del prezzo del greggio: la sua bilancia delle riserve in valuta estera è scesa dai 742 miliardi di dollari del 2014 agli attuali 648 miliardi, e in un’economia nella quale il 90% del pil viene dall’estrazione e dal commercio del petrolio, un ulteriore, inevitabile deprezzamento della materia prima avrà conseguenze minacciose per il paese.

IL MONITO DEL FMI
Il Fondo monetario ha già lanciato moniti contro il governo di Riad per la liberalità con la quale concede sussidi all’industria, e ha minacciato interventi se il deficit di bilancio supererà il 20% del pil, come stava già accadendo a fine del 2015. I sauditi hanno bisogno di ogni arma disponibile per contrastare l’avanzata degli iraniani, e la tentazione di usare ancora una volta la carta della religione e dell’orgoglio nazionale ai propri scopi può produrre conseguenze incontrollabili.
 
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